Sembra il nome di un paese incantato, uscito da una fiaba per bambini. O il titolo di un’epopea amorosa o di una leggenda che narra le avventure di una carovana nel deserto. Samarcanda stimola l’immaginazione dei viaggiatori curiosi, anche se non sono in grado di indicarla con precisione sulla mappa. Chi è un po’ più informato associa probabilmente questo nome alla Via della seta o al grande gioco dell’ottocento, quando le potenze si contendevano l’influenza in Asia centrale. Samarcanda, però, nasconde molte altre storie, perché è una delle città più antiche del mondo.
I nomi delle città più antiche dell’Uzbekistan, e quindi delle attrazioni turistiche più famose, non possono che affascinare le persone con una fervida immaginazione: Bukhara, un tempo capitale dell’omonima provincia, nella valle del fiume Zarafshan; oppure Khiva, sul fiume Amu Darya, ex capitale del khanato (un territorio su cui governa un khan, tipico dell’Europa orientale e dell’Asia) di Khiva. I turisti sono attratti dalla loro storia straordinariamente ricca, dal patrimonio multiculturale e dall’architettura mozzafiato. A questo si aggiungono le montagne del Tian Shan e il deserto del Kyzyl Kum, solo per citare i siti più celebri. Tutti questi luoghi sono diventati molto più accessibili. Forse fin troppo.
Questo paese dell’Asia centrale oggi è una delle mete turistiche emergenti più interessanti al mondo. I continui record sono alimentati da visitatori provenienti dai paesi vicini e lontani, in particolare dalla Cina, dalla Corea del Sud, dalla Russia e dall’Europa. Il presidente Shavkat Mirziyoyev sostiene che nel 2024 l’Uzbekistan ha attirato più di dieci milioni di turisti, tre milioni in più rispetto all’anno precedente. All’inizio le autorità prevedevano di arrivare fino a 15 milioni nel 2030, ma il presidente spera di raggiungere l’obiettivo già nel 2025.
Il governo considera lo sviluppo del turismo una priorità: nel 2019 ha abolito l’obbligo del visto per i visitatori provenienti da più di ottanta paesi, tra cui quelli dell’Unione europea. Con agevolazioni fiscali e crediti vantaggiosi, ha permesso di creare migliaia di posti letto in hotel e ristrutturare centinaia di monumenti e siti culturali.
Samarcanda, Bukhara e Khiva sono tappe obbligatorie. Anche chi non ama la folla non oserà perdersi l’iconico Registan, il complesso di madrase (scuole coraniche) a Samarcanda, la fortezza Ark a Bukhara o il fiabesco minareto Kalta Minor a Khiva. E l’elenco dei tesori in queste tre città è ben più lungo. Le città dell’attuale Uzbekistan devono la loro ricchezza al fatto di essere nel cuore della Via della seta, che si estendeva dalla cinese Xian al mar Mediterraneo e che per molti secoli ha favorito gli scambi tra l’oriente e l’occidente. In queste città si mescolavano culture diverse: quella locale sogdiana, la persiana, la greca, la cinese, la mongola, l’araba e islamica, l’indiana, la turca, la russa e sovietica.
Le tracce di queste influenze si possono scoprire oggi nell’architettura, nella letteratura, nella religione e nella lingua. Ma anche nella cucina. Il re della tavola è ovviamente il plov (pilaf): in generale si tratta di riso con pezzi di agnello o manzo, carote, cipolle, aglio e spezie; ma ogni posto ha la sua versione. Sono popolari anche i ravioli: i manti sono grandi e cotti al vapore; i samosa, fritti in olio abbondante, sono croccanti; i chuchvara, invece, possono essere paragonati ai pelmeni, popolari a est della Polonia. Un’altra specialità è il lagman, ovvero spaghetti di grano cucinati con carne e verdure. Oppure il naryn, cioè pasta con carne di cavallo. Come in molti altri paesi, anche in Uzbekistan sono popolari gli spiedini di carne. Non mancano poi le lepyoshki (il tradizionale pane rotondo cotto nel forno tandoor), un’ampia gamma di latticini, il dolce halva, frutta secca e noci. E, naturalmente, il tè verde.
Purtroppo la gentrificazione e l’espansione degli hotel fanno sì che luoghi popolari comincino a trasformarsi, nel migliore dei casi, in città-museo e, nel peggiore, in parchi divertimento in stile Disney che si rifanno alla Via della seta.
La ricercatrice Svetlana Gorshenina, dell’associazione Alerte héritage, ha confermato alla Bbc che queste città stanno perdendo la loro autenticità a favore dell’auto-esotizzazione, cioè “una sorta di orientalizzazione, retaggio del colonialismo”. La critica al boom turistico resta, tuttavia, un fenomeno marginale e non sembra che le autorità abbiano imparato rapidamente dagli errori di altri posti iper-turistici, né che stiano pensando di rivedere la strategia.
A causa della crisi climatica le temperature continuano a salire. E lo fanno più rapidamente della media globale
Basta però allontanarsi dai siti più conosciuti per potersi godere cittadine, rovine, fortezze, centri spirituali, steppe, deserti e montagne. Ci sono meno turisti nella valle di Fergana, circondata da catene montuose, dove il clima è più mite e, oltre alle antiche moschee e ai palazzi, i curiosi sono attratti dai laboratori di ceramica e di produzione della seta. Vale anche la pena di trascorrere qualche giorno a Tashkent, anche se nel 1966 fu distrutta da un terremoto e oggi è dominata da edifici moderni. Ma la capitale ha comunque i suoi tesori: tra le perle del patrimonio sovietico figurano sicuramente le stazioni della metropolitana riccamente decorate, tra le più belle della regione. O l’Hotel Uzbekistan, costruito negli anni settanta, simbolo del modernismo e del brutalismo sovietico.
Non esiste l’opposizione
Incantati dalle attrazioni dell’Uzbekistan, i turisti potrebbero non rendersi conto che sono in un paese in cui i cittadini non possono esprimere liberamente le loro opinioni, non esistono partiti d’opposizione e i mezzi di comunicazione sono sotto il controllo del regime. Nel Democracy index stilato dal settimanale britannico The Economist, l’Uzbekistan occupa il 148° posto su 167 stati. Eppure la situazione è migliorata rispetto al passato. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ai tempi del primo presidente dell’Uzbekistan indipendente, Islom Karimov, il paese era uno dei più chiusi al mondo.
Morto Karimov, si è aperta una fase di disgelo, seppur ancora molto limitato. “Anche se le riforme introdotte da Shavkat Mirziyoyev, presidente dal 2016, hanno portato miglioramenti in alcuni settori, l’Uzbekistan resta uno stato autoritario, con scarsi segni di democrazia. Continuano ad arrivare denunce di torture e altre forme di maltrattamento”, sintetizza l’ong statunitense Freedom house.
Il turista s’imbatterà ancora nei resti del precedente sistema, come per esempio l’obbligo di registrarsi. Tuttavia, passando da un bazar a un museo probabilmente non noterà violenza e repressione. Potrebbe farlo riflettere, invece, una visita al complesso Islom Karimov di Tashkent. Questo centro, costruito dopo la morte del leader, colpisce gli europei per l’intensità della propaganda. Le sale sono piene di fotografie e immagini degne della Corea del Nord: Karimov con i bambini, con le tigri, con lo sguardo rivolto al futuro, impegnato a combattere il terrorismo, nel “giardino paradisiaco”, preoccupato per la pace, insieme a Vladimir Putin o a Giovanni Paolo II.
In una certa misura il fenomeno Karimov è stato l’antidoto a decenni di colonizzazione, russa prima e sovietica poi. Tutto cominciò nell’ottocento: Tashkent cadde nel 1865 e poco dopo i khanati di Bukhara e Khiva diventarono protettorati russi. Mosca ampliò le linee ferroviarie piegandole agli interessi imperiali e avviò la coltivazione del cotone su scala industriale. La russificazione prese slancio quando, dopo la rivoluzione bolscevica, queste terre furono annesse all’Urss.
Dopo il 1991 la percentuale di russi in Uzbekistan cominciò a diminuire, mentre gli uzbeki, costretti a emigrare a causa delle difficoltà economiche, hanno cercato in massa lavoro in Russia, dove sono diventati rapidamente il gruppo più numeroso di immigrati economici. Negli ultimi anni, però, questa tendenza si è indebolita a causa dell’invasione russa dell’Ucraina: l’occidente ha imposto sanzioni all’aggressore, che hanno indebolito l’economia e la valuta russe. A questo si sono aggiunti il razzismo e la discriminazione di cui sono vittime gli uzbeki in Russia, oltre alla brutalità delle forze dell’ordine locali.
In Uzbekistan l’atteggiamento nei confronti della Russia è però più ambivalente rispetto alla “russofobia genetica” polacca. Memori del colonialismo e preoccupati per l’attuale neoimperialismo russo, gli uzbechi mantengono le distanze. Nel paese non ci sono sondaggi attendibili, quindi è difficile stabilire quale parte della popolazione sostenga l’Ucraina e quale la Russia, ma dalle conversazioni casuali per strada emerge che le opinioni sono divise. Quando nell’ottocento la Russia rivaleggiava con l’impero britannico per ottenere influenza nella regione, l’Uzbekistan era uno dei principali teatri di questa competizione durata quasi un secolo. La letteratura d’avventura, per esempio Kim di Rudyard Kipling, ha un po’ esagerato questa rivalità geopolitica, descrivendola come un avventuroso scontro tra spie e servizi segreti.
Dopo il crollo dell’Urss, l’Asia centrale è tornata l’arena di questa competizione tra le potenze: oltre alla Russia, anche la Cina, la Turchia, gli Stati Uniti e l’Unione europea partecipano al “grande gioco”. In ballo ci sono le risorse energetiche, i gasdotti, gli oleodotti. E anche se la Russia resta un importante partner commerciale e politico dell’Uzbekistan, sotto questo aspetto la Cina ha già conquistato il primato: l’Uzbekistan svolge un ruolo chiave nel progetto della Nuova via della seta, cioè la strategia cinese per dominare infrastrutture e commercio.
Anche se commercia principalmente oro, l’Uzbekistan resta uno dei maggiori esportatori di cotone. Tuttavia sta cercando di cambiare, perché negli ultimi decenni ha pagato un prezzo alto per il boom nella produzione di “oro bianco”: la pianta ha sostituito altre colture, ha subordinato la regione alla politica di Mosca e ha limitato la libertà degli abitanti. Furono i pianificatori sovietici a decidere che proprio questo paese desertico sarebbe diventato una potenza cotoniera e una monocoltura. Negli anni cinquanta la coltivazione dell’oro bianco comportava il lavoro forzato, anche dei bambini. Solo nel 2022 l’Organizzazione internazionale del lavoro ha confermato che queste pratiche erano state eliminate. Gli attivisti continuano a segnalare abusi, ma quello dell’Uzbekistan è uno dei pochi casi in cui il boicottaggio dei consumatori ha contribuito al cambiamento.
Nel Democracy index stilato dall’Economist il paese occupa il 148° posto su 167 stati. Eppure la situazione è migliorata rispetto al passato
La produzione estensiva ha portato a uno dei disastri ambientali più drammatici provocati dall’essere umano. Per l’irrigazione dei campi si usavano le acque degli affluenti del lago d’Aral, un tempo il quarto lago più grande del mondo. Oggi il bacino si è ridotto del 90 per cento e al suo posto si è formato il deserto salato di Aralkum. Per andare dall’antica riva allo specchio d’acqua attuale servono molte ore di viaggio attraverso un monotono paesaggio lunare, talvolta ravvivato solo dagli impianti d’estrazione di petrolio e gas. I monumenti di questa apocalisse ecologica sono i relitti del “cimitero delle navi”, nell’ex porto di Moynaq. Il prosciugamento del lago è stato una condanna per questa città: trentamila persone impiegate nella lavorazione del pesce hanno perso il lavoro; il nuovo deserto è contaminato dai pesticidi che un tempo defluivano nel lago dalle piantagioni di cotone e che oggi il vento solleva sotto forma di polvere tossica, anche a centinaia di chilometri di distanza; sull’isola di Vozroždenie – nota anche come “isola della Rinascita”, un tempo al centro del lago e oggi diventata una penisola – sorgeva il più grande poligono di armi biologiche dell’Urss, dove venivano testati, tra gli altri, l’antrace e il virus della peste.
L’atlante della memoria polacca
L’Uzbekistan occupa un posto importante anche nell’atlante della memoria legata alle travagliate vicende dei polacchi. Samarcanda fu una delle loro mete di esilio dopo le rivolte dell’ottocento. Qui lavorò, tra gli altri, il viaggiatore, esploratore e fotografo polacco Leon Barszczewski. Durante la seconda guerra mondiale, dopo la firma dell’accordo Sikorski–Majski nel 1941, i polacchi che lasciavano i gulag erano destinati anche a Samarcanda. In totale, attraverso l’Uzbekistan transitarono più di centomila polacchi, civili e soldati dell’armata del generale Anders, che Ksawery Pruszyński ha commemorato nel racconto Il trombettiere di Samarcanda. Oggi ricordano tutto questo i cimiteri polacchi, mantenuti con cura.
Dopo la guerra, non lontano da Bukhara, nel deserto del Kyzyl Kum, fu girata una delle più grandi produzioni del cinema polacco: l’adattamento del romanzo storico Il faraone di Bolesław Prus, diretto da Jerzy Kawalerowicz (1966). La troupe, alloggiata a Bukhara, trascorse più di cinque mesi sul set, con temperature dell’aria che raggiungevano i 60 gradi e quelle della sabbia che superavano i 70. La pellicola era conservata in celle frigorifere e, poiché doveva essere sviluppata a Łódź, era spedita in aereo passando per Mosca.
A causa della crisi climatica le temperature continuano a salire in Uzbekistan. E lo fanno più rapidamente della media globale: oltre il 70 per cento della superficie del paese è ormai costituito da deserti e steppe.
L’Uzbekistan è anche uno dei paesi più esposti al deficit idrico, uno di quei luoghi in cui le preoccupazioni per l’acqua causano tensioni politiche e possono perfino provocare una guerra. Tashkent ha ripetutamente messo in guardia, anche con le armi, il Tagikistan e il Kirghizistan dalla costruzione di ulteriori dighe che riducono la portata dei fiumi. ◆ sb
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1634 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati