Sudan Gurung 36 anni, Nepal
Sudan Gurung è emerso nel cuore di un movimento senza capi, arrivando in poche ore a incarnare la rivolta. A 36 anni, non appartiene alla generazione Z nepalese, ma ne è diventato un punto di riferimento importante. E questo non è un paradosso da poco nella contestazione che l’8 e 9 settembre ha fatto cadere il governo del primo ministro comunista Khadga Prasad Sharma Oli. In due giorni di tumulti di rara violenza, 73 persone sono state uccise, 1.300 ferite e la maggior parte dei palazzi delle istituzioni – parlamento, corte suprema, ministeri – sono stati dati alle fiamme. Si stimano danni per circa 18,2 miliardi di euro.
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Sconosciuto fino a quel momento, Gurung si è imposto come leader di un’insurrezione in gran parte spontanea, nata sui social media. Il movimento, partito con l’hashtag #nepokids, è esploso dopo la sospensione di una ventina di piattaforme (che non si erano adeguate alle nuove disposizioni governative). Gurung ha raccontato di essersi ispirato alle manifestazioni per la democrazia del 2019 a Hong Kong, spostandosi su Discord per aggirare il divieto imposto a WhatsApp e a Facebook, e coordinare da lì la mobilitazione. Dopo la caduta del governo si è improvvisato mediatore, dialogando con il presidente, il capo dell’esercito e i manifestanti.
Ex dj con l’aspetto da dandy, con occhiali scuri e giacche all’occidentale, Gurung è anche il fondatore di Hami Nepal, un’organizzazione di beneficenza nata dopo il terremoto che nel 2015 devastò l’antico regno himalayano. Il suo motto: “Dal popolo, per il popolo”.
Dopo l’8 e il 9 settembre alcune voci l’hanno definito un uomo al servizio di interessi stranieri o un attivista per il Tibet libero. Messo sotto sorveglianza dalla polizia, smentisce con forza le accuse, che secondo lui mirano a screditarlo per indebolire il movimento. “Dicono che sono un agente della Cia, dell’India, o addirittura della Thailandia. È una strategia per dividerci”, ha spiegato agli attivisti. In una rara intervista concessa il 27 settembre ad Al Jazeera, ha annunciato la sua candidatura alle elezioni del marzo 2026, e non ha escluso di ambire alla carica di primo ministro.
“Devo salvare il mio paese”, ha aggiunto, indossando un gilet macchiato con il sangue delle persone morte l’8 settembre sotto i proiettili della polizia. Il suo movimento ora cerca di “unire la gen Z” per costruire una “corrente di cambiamento”, più che un partito tradizionale. “Ci hanno spinto loro in politica”, ha detto a proposito del vecchio governo, composto, secondo lui, da persone “egoiste” e “corrotte”, per poi avvertire che i giovani non accetteranno il loro ritorno.
Gurung è intransigente. Dopo aver sostenuto, attraverso una votazione organizzata su Discord, Sushila Karki alla guida del governo provvisorio e aver assistito al suo giuramento il 12 settembre, ne ha subito chiesto le dimissioni. Un cambio di rotta legato alla scelta di affidare il ministero dell’interno a Om Prakash Aryal, che Gurung accusa di voler prendere il potere illegalmente. Il 15 settembre, circondato dai familiari dei manifestanti uccisi, davanti all’abitazione della premier a Kathmandu ha gridato: “Il vero potere appartiene al popolo”. Poco dopo ha dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di aggressione.
Preoccupata di mantenere un legame con la gen Z, Sushila Karki ha nominato Bablu Gupta, 28 anni, ministro della gioventù e dello sport. Attivista e figura di spicco della contestazione, Gupta si presenta con un profilo simile a quello di Gurung. Dopo aver fondato e diretto il Gruppo dei 100, un’organizzazione che sostiene le popolazioni svantaggiate, è oggi il più giovane ministro della storia del Nepal. ◆ fdl
Cania Citta 30 anni, Indonesia
Cania Citta, trent’anni, è uno dei volti del Malaka project, fondato nel 2023 in Indonesia da nove persone influenti sul web. Il loro canale YouTube, che oggi ha raggiunto più di un milione di iscritti, si è dato l’obiettivo di “formare una società intelligente, critica ed empatica”. Il progetto è un omaggio a Tan Malaka, pensatore politico ed eroe della rivoluzione indonesiana, condannato a morte nel 1949. Il collettivo si è messo al servizio dei manifestanti nell’agosto 2025, elaborando con altre organizzazioni civili e studentesche una serie di rivendicazioni intitolate “17+8 richieste”. Tra queste ci sono l’esclusione dell’esercito dagli affari civili e la liberazione dei manifestanti arrestati. La maggior parte non è stata soddisfatta.
Cania Citta si dedica alle questioni politiche e anima la nuova piattaforma per la diffusione di libri online di Malaka. A gennaio ha pubblicato un bestseller, scritto con Abigail Limuria, intitolato Makanya mikir! (Dunque, pensate!).
La incontriamo in un caffè di Jakarta che frequenta abitualmente. Dice di essere preoccupata per il consumo dei saperi nell’era dei social media e dell’intelligenza artificiale. “Per farsi un’opinione ai ragazzi basta passare qualche secondo su TikTok o guardare un video su YouTube che pretende di spiegare la microbiologia in due minuti”, osserva con disapprovazione. “Non è possibile!”. Di fronte a queste derive, lei sostiene il “pensiero critico” e la “conoscenza basata sui fatti”. Nata nella parte occidentale di Java, Citta porta i capelli abbastanza lunghi e non indossa l’hijab. È laureata in scienze politiche all’università dell’Indonesia a Jakarta, una delle più prestigiose del paese. Ha lavorato come consulente in parlamento, poi per una piattaforma d’informazione online, prima di avere successo come creatrice di contenuti indipendente.
Dopo le manifestazioni di agosto, l’8 settembre il comandante delle operazioni informatiche dell’esercito indonesiano aveva annunciato di voler denunciare per diffamazione Ferry Irwandi, uno degli animatori del Malaka project. Gli è andata male. “In Indonesia l’esercito non può sporgere una denuncia per diffamazione”, spiega Citta. “Lo abbiamo chiarito su Malaka e sui nostri social media. La polizia l’ha confermato e l’esercito ha subìto un contraccolpo: molte persone hanno cominciato a pensare che i nostri diritti civili e la democrazia fossero minacciati dai militari”.
In Indonesia internet è diventato un campo di battaglia che pullula di buzzers, provocatori pagati da politici o imprenditori, spesso studenti in cerca di entrate extra. È un “fenomeno che danneggia la democrazia, creando un ambiente politico manipolato dagli interessi dei ricchi e dei potenti”, osserva l’Istituto Iseas-Yusof Ishak di Singapore in uno studio pubblicato nel settembre 2024.
Un altro volto del Malaka project, Jerome Polin, ha rivelato che gli erano stati offerti 150 milioni di rupie (7.800 euro) per postare su Instagram il video “L’Indonesia vuole la pace” nel momento culminante delle manifestazioni. ◆ fdl
Yuu 21 anni, Madagascar
Yuu scende con agilità dal suo scooter ed entra al Custom café, un bar frequentato da motociclisti nel centro di Antananarivo. Durante le tre settimane di contestazioni, violenze e repressione che il 14 ottobre hanno portato alla caduta del governo in Madagascar, il bar della capitale è stato un rifugio segreto per i manifestanti, e Yuu era uno dei loro leader.
In questa fine di ottobre Yuu, studente di giurisprudenza di 21 anni, non è qui per assistere a una riunione clandestina. Tuttavia organizzare l’incontro è stato difficile quasi come ai tempi in cui era ricercato dalle forze di sicurezza.
Dopo la caduta del presidente Andry Rajoelina, sostituito da un governo di transizione guidato dal colonnello Michael Randrianirina, nel paese regna l’incertezza. Chi ha realmente il potere, e con quali intenzioni? In un clima così instabile, la generazione Z rimane sulla difensiva, decisa a difendere gli ideali della “rivoluzione”, in particolare una giustizia sociale difficile da mettere in pratica. Il paese non è tranquillo e così Yuu continua a usare uno pseudonimo e non rimane mai a lungo nello stesso posto.
Sembra ancora sorpreso per la rapidità e la violenza degli eventi. Fino a poco tempo fa studiava diritto all’università e nei momenti liberi si dedicava a una piccola società audiovisiva per guadagnare un po’. Ma aveva dovuto affrontare un problema molto diffuso in Madagascar: un uomo vicino al potere aveva cercato di appropriarsi della sua impresa attraverso un metodo ormai collaudato, prima un’assurda multa, poi l’intervento di un mediatore che proponeva una “soluzione”, a condizione che gli cedesse la società.
Preso in questo ingranaggio, Yuu aveva scoperto Discord, dove gli studenti esprimevano la loro rabbia contro le interruzioni sempre più frequenti di elettricità e acqua corrente. Questa frustrazione era alimentata da alcuni influencer all’estero, che nei loro video mostravano l’incredibile ricchezza dei figli della classe dirigente malgascia. Yuu è entrato nel gruppo “quasi per curiosità”. A settembre si è formato un movimento embrionale. La maggior parte dei suoi esponenti non si era mai incontrata di persona. E quando il 25 settembre hanno deciso di scendere in piazza, Yuu non si è tirato indietro. Ai punti di incontro si è trovato a gridare slogan a fianco di “perfetti sconosciuti”, felice di provare le stesse emozioni.
Ma le cose sono cambiate molto rapidamente. “Volevamo esporre le nostre richieste in modo educato e gentile, ma i poliziotti si sono scatenati”, racconta. Senza alcun avvertimento, hanno cominciato a sparare lacrimogeni, proiettili di gomma e granate stordenti, e a dare manganellate. Un errore tattico, perché questo tentativo di soffocare il movimento l’ha radicalizzato. “Era il caos: c’erano esplosioni, feriti e sangue ovunque”, ricorda Yuu. “Con i nuovi amici abbiamo preso istintivamente la guida delle proteste”. Diventati “frontisti”, si sono schierati in prima linea contro le forze antisommossa, che non esitavano a sparare sui manifestanti all’altezza della testa. Un giorno una granata stordente è esplosa ai piedi di Yuu e lui ha perso conoscenza. Mentre cercava di riprendere i sensi, le cariche continuavano. “Alcune persone hanno aperto le loro case e ci hanno nascosto, questo ci ha salvato la vita”, dice Yuu. “Pensavamo che i malgasci fossero indifferenti, ma non è vero, eravamo uniti contro questo potere assassino”. Poco dopo Yuu è entrato a far parte del “team Phenix”, una struttura incaricata di elaborare una strategia e di contenere gli elementi più radicali per evitare l’aumento della violenza.
Poi il presidente Rajoelina è scappato e il governo è crollato alla stessa velocità con cui si era scagliato contro i giovani. Yuu però non è tranquillo: “Credo di avere un disturbo da stress post-traumatico. Appena vedo del fumo o sento dei rumori forti, voglio scappare. Ho crisi di ansia, problemi di memoria e non dormo più”. Non è il solo, molti hanno avuto paura di morire. All’inizio delle manifestazioni Yuu era stato invitato a una riunione segreta con le autorità. In seguito ha scoperto di essere stato fotografato e che la sua foto era stata trasmessa alle unità che dovevano cercare i leader del movimento. “Volevano la nostra pelle”, sussurra. Da quel momento è entrato in clandestinità, con la costante paura di finire nell’elenco dei morti: 22 in tre settimane, circa uno al giorno, secondo stime arrotondate per difetto.
Oggi Yuu comincia ad avere dei dubbi: “A volte mi domando cosa ci faccio qui. Ci sono fin dall’inizio, ma vedo tensioni, divisioni interne che non capisco più”. Poi continua: “Tuttavia il movimento deve resistere a ogni costo. È il nostro contributo al futuro del paese”. ◆ adr
Leandro Pacheco 17 anni, Perù
Quando ha manifestato nelle strade di Lima, verso la metà di settembre, Leandro Pacheco aveva solo 17 anni. La generazione Z peruviana protesta contro la riforma del sistema delle pensioni. La legge che impone l’iscrizione a un sistema pensionistico a partire dai 18 anni è stata un vero e proprio detonatore, spiega il ragazzo, ma la “protesta non riguarda solo questo”. La rabbia ha continuato a crescere di fronte “all’insicurezza e alla corruzione” endemiche del Perù.
La mobilitazione dei giovani che ha portato alla caduta del governo in Nepal, a migliaia di chilometri di distanza, è nella mente di tutti. “Per noi è stata una fonte di ispirazione”, dice Pacheco. “Ho capito che l’indignazione poteva trasformarsi in una forza positiva e che uniti possiamo ottenere grandi cose”.
Un giorno una granata stordente è esplosa ai piedi di Yuu e lui ha perso conoscenza
Prima di allora Pacheco, studente di psicologia alla prestigiosa università Cayetano Heredia di Lima, non aveva molta esperienza in politica. Calmo e riservato, con occhiali rettangolari e vestiti neri, aveva manifestato solo qualche volta, durante la giornata dei diritti delle donne dell’8 marzo. Ma in poche settimane è diventato una delle figure emblematiche della gen Z peruviana e coordina il collettivo Jóvenes líderes por el Perú (Giovani leader per il Perù).
“Manifesto perché nel nostro paese la gente possa vivere in modo dignitoso”, sintetizza Pacheco. L’insicurezza colpisce ogni aspetto della vita quotidiana: l’aumento degli omicidi e della delinquenza, la precarietà nel lavoro e negli studi e la debolezza delle istituzioni alimentano un clima di grande sfiducia.
I suoi genitori capiscono perché vuole impegnarsi, ma la madre, casalinga, è preoccupata e ha deciso di accompagnarlo alle manifestazioni. Pacheco ha partecipato alle marce contro l’insicurezza, accanto agli autisti degli autobus, particolarmente presi di mira dalle estorsioni. Durante la grande mobilitazione del 15 ottobre il rapper di 32 anni Eduardo Ruiz Sáenz detto Trvko è stato ucciso da un poliziotto in borghese e decine di giovani sono stati feriti.
Da allora il movimento sembra essere in pausa. “Ci stiamo riorganizzando”, dice lui. La destituzione della presidente Dina Boluarte, rimpiazzata dal molto contestato presidente del parlamento José Jeri, non ha cambiato la posizione del movimento: “Devono andare via tutti!”. “Non siamo iscritti a un partito, ma non siamo neanche apolitici”, precisa Pacheco. Lui dice di essere di centrosinistra, progressista e soprattutto “contro Fujimori”, in riferimento a Keiko e al padre Alberto Fujimori, morto nel 2024, che governò in modo autoritario tra il 1990 e il 2000.
La gen Z peruviana denuncia il “patto mafioso” tra l’esecutivo e un parlamento dominato da una destra accusata di aver approvato norme che favoriscono i criminali e di aver indebolito la magistratura. I giovani denunciano le “leggi antidemocratiche”, in particolare quella che limita la libertà di associazione e quelle che “danneggiano le popolazioni native e l’ambiente”. Inoltre chiedono il ritiro delle norme che concedono l’amnistia ai militari, ai poliziotti e agli esponenti dei comitati di autodifesa per gli atti compiuti durante il conflitto armato nel paese (1980-2000).
Pacheco vuole mantenere la pressione alta in vista delle elezioni generali, fissate per il 12 aprile 2026. “Non bisogna perdere la voglia di lottare per un futuro migliore in questo paese”, conclude. ◆ adr
Zine Iddine el Jahd 16 anni, Marocco
Jeans strappati, maglietta, scarpe da ginnastica Nike e kefiah palestinese: Zine Iddine el Jahd, 16 anni, rappresenta una generazione marocchina urbana e allo stesso tempo impegnata. Minorenne, come il 70 per cento dei manifestanti secondo il ministero dell’interno di Rabat, si definisce della “classe media”. Studente di un liceo pubblico del quartiere di Aïn Sebaa, il vecchio polo industriale di Casablanca, vive con i genitori nel vicino quartiere di Sidi Bernoussi, il più popoloso della città. Il padre e la madre gestiscono un caffè.
È convinto che “la voce dei giovani sia ignorata” e per questo ha risposto fin dal primo giorno all’appello del collettivo Gen Z 212 (il numero del prefisso telefonico internazionale del Marocco). Zine Iddine ricorda bene l’atmosfera di quel 27 settembre. Le manifestazioni volevano essere pacifiche, le rivendicazioni strettamente sociali. Però, racconta, le forze dell’ordine li avevano caricati e avevano arrestato in modo “arbitrario” decine di persone. In particolare lo ha impressionato vedere dei poliziotti che picchiavano un bambino di dodici anni.
Come tutti i manifestanti, vuole servizi scolastici e sanitari migliori, “bisogni elementari a cui la maggioranza dei marocchini non ha diritto”. Denuncia anche “l’abbandono” dei giovani: sono troppo poche le strutture dedicate a quelli che hanno meno soldi. Per emanciparsi devono cavarsela da soli, e il tasso di disoccupazione nella fascia d’età 15-24 anni sfiora il 50 per cento nelle città.
Zine Iddine ricorda le immagini del Nepal che circolavano sui social media a settembre. “Avevano i nostri stessi problemi”, assicura. “Le disuguaglianze, la corruzione, i fallimenti dello stato”. Ma la gen Z nepalese è riuscita a far dimettere il primo ministro, mentre in Marocco il capo del governo è rimasto al suo posto. Re Mohammed VI si è rifiutato di sciogliere il parlamento, come chiedevano i giovani, l’unico modo per far cadere l’esecutivo. “Non mi aspettavo che il re lo facesse, ma speravo in parole più forti da parte sua”, confida Zine Iddine. Pensa, però, che il re – che due settimane dopo l’inizio delle manifestazioni ha chiesto ai ministri più rapidità – abbia saputo placare la rabbia dei manifestanti.
Le mobilitazioni si sono fermate poco dopo l’intervento del monarca. Con grande sollievo dei genitori di Zine Iddine: “Mio padre, che aveva partecipato alla primavera araba del 2011 aveva paura per me”. Più di duemila persone sono state arrestate e i tribunali hanno condannato i contestatori violenti a pene severe. Zine Iddine non approva gli eccessi, ma li interpreta come un “accumulo di frustrazione”.
A sud di Agadir, secondo le autorità, tre giovani sono stati uccisi dai colpi sparati dalle forze dell’ordine mentre davano l’assalto a una gendarmeria (ma questa versione dei fatti è contestata dai parenti delle vittime). Alcuni studenti sono stati condannati al carcere per aver manifestato, o semplicemente per aver invitato altri a farlo.
Zine Iddine sogna di diventare avvocato, convinto che “in Marocco il successo finisce per favorire sempre i più potenti, anche quando dovrebbero perdere”. Ma questo non sembra amareggiarlo. È contento che la gen Z marocchina abbia fatto notizia anche all’estero, ma si rammarica perché il collettivo ha rifiutato di allearsi con i partiti, i sindacati o le associazioni: “Questo è stato probabilmente un ostacolo: avremmo potuto avere un inquadramento migliore e l’aiuto di militanti esperti”.
Troppo giovane per partecipare alle elezioni legislative del 2026, non si aspetta molto dal voto: “La maggioranza di governo non cambierà, non saranno i marocchini a decidere. Le elezioni sono sinonimo di clientelismo e di denaro”.
La gen Z marocchina ha abbandonato la piazza, ma non è scomparsa. Zine Iddine è convinto che la prossima volta tornerà “più forte che mai”. ◆ adr
Gli articoli di queste pagine sono stati scritti dai giornalisti Frédéric Bobin, Alexandre Aublanc (da Casablanca, Marocco), Amanda Chaparro (da Cuzco, Perù), Jean-Philippe Rémy (da Antananarivo, Madagascar), Brice Pedroletti (da Jakarta, Indonesia) e Sophie Landrin (da New Delhi, India).
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Questo articolo è uscito sul numero 1641 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati