Sei a una festa e non sei per niente sobrio. La musica rimbomba mentre ti chiudi in bagno e ti perdi a guardare il tuo riflesso sotto una luce impietosa. Di fronte allo specchio, ti chiedi: “Chi è questo clown?”. Ma non sei arrabbiato: sei solo sospeso, distaccato da te stesso. È in questo intervallo di tempo che vive Deadbeat, il nuovo album di Kevin Parker alias Tame Impala. In 56 minuti, Parker interpreta l’uomo allo specchio, pentito dei suoi errori e incapace di connettersi davvero con gli altri, oscillando tra lucidità e fuga euforica. Con Deadbeat il musicista australiano abbandona il rock psichedelico che l’ha reso celebre per abbracciare il suono ipnotico del rave: bassi sintetici, cassa dritta, pochi fronzoli. Il risultato è una reinvenzione coraggiosa ma ambivalente: i temi di vergogna e autocommiserazione cozzano con la freddezza dei beat elettronici. Spesso la musica appare leggera, quasi disincarnata, come in Not my world o Piece of heaven. Quando però Parker si concede al pop, come in Oblivion o Dracula, emerge un’energia più viva, un equilibrio tra ironia e vulnerabilità. Deadbeat racconta la storia di un uomo intrappolato nei propri difetti, incapace di cambiare. Solo nel finale, con Afterthought, s’intravede una liberazione. E la copertina, nella quale si vede Parker che abbraccia la figlia, suggerisce una speranza che la musica non osa ancora realizzare.
Paolo Ragusa, Consequence of Sound
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Questo articolo è uscito sul numero 1637 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati