Sono piccoli momenti di vita quotidiana, momenti a cui non si dà molta importanza ma che poi è bello ritrovare negli album di famiglia o nelle foto abbandonate in fondo a un cassetto. Sono spesso ricordi dell’infanzia, che si guardano con una sorta di nostalgia o tenerezza.
L’artista ghaneano Carlos Idun-Tawiah, nato nel 1997, non ha avuto la fortuna di avere queste immagini. L’ha scoperto a 18 anni, quando è morto suo padre. “Era il 9 marzo 2015. Mi sono svegliato da un riposino pomeridiano in corridoio, vicino al pianoforte che mi aveva comprato, sentendo il pianto di mia madre e ho visto che la casa era piena di parenti che non vedevo da anni. È così che ho saputo della morte di mio padre”. Quel giorno si è reso conto di non avere quasi nessuna foto di loro due insieme. Così, dieci anni dopo, l’artista ha realizzato uno scatto quadrato in bianco e nero, in cui s’indovina un pianoforte e a sinistra si vede l’ombra di un bambino su un muro con una carta da parati a fiori. “Questa foto, 9 marzo, Accra, Ghana 2024, è al tempo stesso un punto di riferimento e uno specchio, un autoritratto dell’innocenza e del ragazzo che ero allora. È un ritratto della perdita ma anche del cambiamento. Il momento in cui è finita l’infanzia, sostituita da qualcosa di più pesante. Da allora sono in conversazione silenziosa con quel momento”.
Mi piace quando una foto dà l’impressione di essere il fermo-immagine di un film, come se appartenesse a una storia più grande
Non è un caso che Carlos Idun-Tawiah associ la scomparsa del padre al piano e alla musica.
L’artista è molto affezionato a questa figura (da cui il titolo della serie, Hero, father, friend) ed è interessato agli archivi che, come la musica, sono una forma di trasmissione. “Gran parte della storia musicale africana è incentrata sui padri che consideravano la musica non solo una forma d’arte ma anche un mezzo per trasmettere la loro eredità. Nelle mie foto Grandpa’s double bass e Own this sound forever rendo omaggio alla trasmissione musicale di generazione in generazione di padri e di figli neri. Own this sound forever è molto personale: è un racconto di come mio nonno ha passato gli ultimi giorni della sua vita a insegnare a me e a mia sorella a suonare il pianoforte. È incredibile che non abbiamo mai avuto l’occasione di fotografare un ricordo tanto forte. Così, per colmare questo vuoto, ho fatto ricorso alla finzione”.
Queste foto in studio, accuratamente illuminate ma al tempo stesso caratterizzate da un’apparente spontaneità, sono sia in bianco e nero sia a colori: “Scelgo quello che mi sembra giusto per l’immagine. A volte il colore è più indicato, a volte il bianco e nero fornisce una nota di eleganza. Se sono in dubbio mi affido al mio istinto e all’emozione che mi trasmette la foto”.
Perciò si passa con fluidità da un viaggio in un treno blu in cui i bambini giocano con dei palloncini a una colazione tra padre e figlio a un ritratto formale in bianco e nero che riunisce tre generazioni.
Ritroviamo la madre insieme alla famiglia nel momento degli applausi alla fine di uno spettacolo e quando il padre insegna ai figli a giocare a golf: The grass is greener where my father is (L’erba è più verde dove c’è mio padre), ci dice il titolo. Carlos Idun-Tawiah non cerca di tradurre l’assenza, impossibile da fotografare, ma di inventare le immagini mancanti. Quelle che gli permettono di dare vita a un’infanzia spensierata che è esistita o immaginata.
Oggi l’artista lavora per importanti testate di moda e per clienti prestigiosi nel settore della pubblicità ma si è avvicinato molto presto alla fotografia. Anche in questo caso è forte il rapporto con il padre: “Mio padre comprava delle Polaroid usa e getta perché gli piaceva immortalare la nostra crescita e conservava le foto con sé durante i suoi viaggi di lavoro. Le fotografie in chiesa la domenica hanno attirato ancora di più la mia curiosità. Il modo in cui faceva i ritratti e la scelta delle foto era affascinante. Era bello riempire l’album di famiglia, una pagina alla volta. In seguito Tumblr è diventato il mio rifugio. Ho avuto la mia prima reflex digitale nel 2015 (l’ultimo regalo di mio padre) e non l’ho più lasciata”.
Tuttavia l’artista non ha seguito alcuna formazione particolare: “Non ho mai veramente studiato fotografia, ma ho lavorato come assistente di un fotografo di matrimoni. La maggior parte delle mie conoscenze proviene dall’osservazione, dai tentativi e dalla curiosità. L’era di Tumblr e la diffusione di Instagram mi hanno permesso di seguire con attenzione l’attualità e l’evoluzione del mondo dell’arte. Mi piace molto la frase di Basquiat: ‘Ho imparato a fare arte osservandola’”. E a quanto pare ha osservato bene artisti come “James Barnor, Malick Sidibé, Roy DeCarava, Gordon Parks, Alex Webb, Samuel Fosso e molti altri. Mi piace la loro capacità di cogliere lo spirito del linguaggio locale. E poiché questa storia era un racconto del mio passato, ho cercato di adottare un’estetica coerente”.
Uno spazio che non esiste
In effetti, in questa attenzione alle radici africane dell’immagine, nell’uso dello studio fotografico e nell’esplorazione del colore c’è una grande coerenza.
Inoltre il suo modo di fare fotografia ha uno stretto rapporto con il cinema: “Il cinema mi piace moltissimo. Film come La nera di… del senegalese Ousmane Sembène o City of God hanno profondamente influenzato il mio modo di pensare l’immagine. Mi piace quando una foto dà l’impressione di essere il fermo-immagine di un film, come se appartenesse a una storia più grande, come se potesse muoversi. Questo contrasto tra l’immobilità e il movimento mi attira molto”. In effetti, siamo sempre in uno spazio che non esiste, tra passato e presente, tra realtà e finzione, tra ricordo e messinscena. La memoria è fallibile e la fotografia è incapace di fornire verità assolute.
Questi due elementi si incontrano, si mescolano e confermano che spesso una fotografia è prima di tutto la visualizzazione di un’immagine mentale preesistente.
Carlos Idun-Tawiah, che preferisce rifiutare (con garbo) i lavori che non lo interessano, opera sempre allo stesso modo, con una grande libertà e una perfetta conoscenza della tecnica: “Prima di tutto mi piace visualizzare mentalmente le scene, sognarle. Talvolta mi scrivo delle note o faccio degli schizzi, ma gran parte del lavoro lo svolgo discutendo con la mia équipe. Per rendere il tutto più equilibrato lavoro in stretta collaborazione con gli scenografi, gli assistenti e gli amici”.
L’artista riesce a mescolare con disinvoltura modelli professionisti e persone qualunque incontrate per strada, cercando sempre di cancellare i confini tra le categorie per ottenere delle immagini che lo tocchino emotivamente e in cui si riconosca.
Hero, father, friend è di fatto un omaggio pieno di vita al padre scomparso, e, attraverso di lui, alla figura paterna nella società e nella cultura africana: “Credo che i padri neri siano al centro del ritratto della famiglia nera, e nelle foto esploro il potenziale di questo genere nel rimodellare la nostra concezione di paternità, passando da un ruolo di gravosa responsabilità alla realizzazione di un’intera vita fatta di amore, di eredità e di dignità”.
Si tratta anche, sebbene questo non sia mai detto esplicitamente, di una forma di autoritratto immaginario in un’infanzia felice.
Eppure Carlos Idun-Tawiah non ha mai posato per nessuna di queste composizioni. Un autoritratto? “Non ne ho ancora mai fatti. Forse un giorno”. ◆ adr
◆ La mostra Hero, father, friend di Carlos Idun-Tawiah è presentata al festival Getxophoto, a Getxo (vicino a Bilbao), dal 29 maggio al 22 giugno 2025. Il tema del festival è Rec, dall’inglese record, che significa registrare, e s’interroga sulla memoria e sulle immagini come possibile testimonianza della realtà.
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati