“Voglio cambiare sesso”, scrisse Patricia Highsmith nel suo diario nel 1948. “È possibile?”. È un desiderio che esiste da sempre. Ora arriva Lucy Sante con un memoir, Io sono lei, in cui racconta la sua transizione, avvenuta dopo i sessant’anni, da uomo a donna. Lucy sa cosa stanno pensando alcuni di voi. Teme che facendo coming out come persona transgender alla sua età, sarà vista come “qualcuno che segue una moda, magari per restare rilevante”. Ha paura che la sua transizione sia interpretata come un gesto opportunistico, una rinuncia ben calcolata al privilegio maschile, una corazza diventata pesante e arrugginita. Eppure eccola qui, interamente Lucy. La “y” aggiunta è una lettera ideale per simboleggiare un bivio. Lucy Sante è come uno squalo, con una fila di denti in più. “Sono una creatura urbana, concreta, disillusa”, scrive. Era una ragazza del New Jersey, figlia unica di immigrati belgi. Ha studiato alla Columbia e si è formata nell’East Village degli anni ottanta, dove frequentava lo stesso giro di Nan Goldin e Jean-Michel Basquiat prima che fossero famosi. Ha lavorato come assistente della redattrice Barbara Epstein alla New York Review of Books, prima di diventare critica, scrittrice e insegnante per molti anni al Bard college. Viviamo in quello che appare, con un gioco di parole quasi inevitabile, un momento di transizione. Senza sminuire gli effetti punitivi che le leggi anti-trans stanno avendo in alcuni stati – tra cui il diritto stesso di esistere in pubblico – è chiaro quanto l’esperienza trans stia entrando nel centro vitale del discorso culturale. Il memoir di Sante è commovente per molte ragioni, ma soprattutto per le sue osservazioni sull’invecchiamento e la vanità, visti attraverso un prisma di colori separati. A più di sessant’anni ha cominciato a rimpicciolirsi. Ha problemi alla schiena, alle ginocchia e calcoli renali. Poiché i peli del suo viso sono diventati grigi non può sottoporsi al laser per rimuoverli. Sarebbe stato molto più veloce ed economico della dolorosa elettrolisi settimanale a cui è costretta. Spero che Io sono lei non sia il suo ultimo memoir. È una storia da seguire per vedere come continuerà a raccontare il suo percorso. La sua acutezza e il suo scetticismo sono ciò che la rende davvero interessante. Dwight Garner, The New York Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati