Playboi Carti (GUNNER STAHL)

In che modo gli artisti creano un mito attorno a sé? In molti casi è facile capire come: parlano poco con la stampa, appaiono solo indossando delle maschere, o passano anni senza pubblicare dischi. Nell’era dei social network, l’asticella della mistica è molto bassa e perfino un disco come Whole lotta red, secondo album in studio del rapper di Atlanta Playboi Carti, viene accolto con grande attesa. Whole lotta red in effetti è sicuramente l’album hip hop dell’anno appena passato: cos’altro potrebbe rappresentare il 2020 se non una cosa così estenuante? Dura poco più di un’ora ma si potrebbero ascoltare semplicemente i primi dieci secondi di ogni brano e sarebbe lo stesso. I difensori di Whole lotta red hanno dipinto Playboi Carti come un rapper sovversivo dall’indole punk, paragonandolo al Kanye West di Yeezus. Non c’è niente di più falso. Il succo del disco è tutto nel primo brano, Rockstar made: Carti rappa come se avesse le convulsioni per compensare la mancanza d’idee su un beat che sembra fatto con una versione difettosa di FruityLoops. Cosa lo distingue da un qualsiasi imitatore che gira su Sound­Cloud? E le metafore dei “rapper come rockstar” non sono vecchie di dieci anni?

B.Kenny, Beats Per Minute

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Questo articolo è uscito sul numero 1391 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati