Un rapido sguardo al ginepraio in cui ci siamo cacciati chiarisce che siamo invischiati in una molteplicità di lotte sociali: la tensione tra la classe dirigente progressista moderata e il nuovo populismo, la lotta ambientalista, la lotta per il femminismo e la liberazione sessuale, le lotte etniche e religiose, la lotta per i diritti umani universali, la lotta contro il controllo digitale sulle nostre vite. Dovremmo trovare il modo di unire tutte queste lotte, evitando di privilegiarne una sola (quella economica, femminista, antirazzista eccetera) come se fosse la “vera” lotta che apre la strada a tutte le altre. Ma come? Mezzo secolo fa, all’apice dell’ondata maoista, la distinzione proposta da Mao Zedong tra contraddizioni “principali” e “secondarie” (formulata nel saggio Sulla contraddizione, del 1937) era all’ordine del giorno nei dibattiti politici. Forse questa distinzione andrebbe recuperata.

Quando Mao parla delle contraddizioni usa il termine nel senso semplice di lotta degli opposti, di antagonismi sociali e naturali, non nel senso puramente dialettico impiegato da Hegel. La teoria maoista delle contraddizioni può essere riassunta in quattro punti. Per prima cosa, una contraddizione specifica è ciò che definisce principalmente una cosa, rendendola quel che è: non è un errore, uno sbaglio, una qualche anomalia ma, in qualche modo, è proprio la caratteristica che tiene insieme la cosa. Se questa contraddizione svanisce, la cosa perde la sua identità. Un classico esempio marxista: finora, nel corso della storia, la contraddizione primaria che definiva ogni società era la lotta di classe.

Ogni contraddizione dipende dall’esistenza di almeno un’altra, la sua vita è in come interagisce con le altre. Se fosse da sola, non sarebbe una contraddizione

Secondo punto: una contraddizione non è mai isolata, dipende da una o più contraddizioni. Ecco l’esempio a cui ricorre lo stesso Mao: in una società capitalista, la contraddizione tra il proletariato e la borghesia è accompagnata da contraddizioni secondarie, come quella tra gli imperialisti e le loro colonie.

Terzo, se una contraddizione secondaria dipende dalla prima (per esempio, le colonie esistono solo nel capitalismo), la contraddizione principale non è sempre quella che domina: le contraddizioni possono scambiarsi l’ordine d’importanza. Per esempio, quando un paese viene occupato è la classe dirigente che di solito viene corrotta affinché collabori con gli aggressori per mantenere la sua condizione privilegiata, così combattere gli invasori diventa la priorità. Lo stesso vale per la lotta contro il razzismo: in uno stato di tensione razziale e sfruttamento, l’unico modo efficace per battersi a favore della classe operaia è concentrarsi sulla lotta contro il razzismo (per questo motivo ogni appello alla classe operaia bianca, tipico del populismo dell’estrema destra statunitense bianca e suprematista, tradisce la lotta di classe).

Infine il quarto punto: una contraddizione principale può anche cambiare. Si può sostenere che oggi, forse, la lotta ambientalista segnala la contraddizione principale della nostra società, poiché ha a che fare con la minaccia alla sopravvivenza collettiva dell’umanità stessa. Si può naturalmente obiettare che la contraddizione principale resta l’antagonismo del sistema capitalista globale, poiché i problemi ambientali sono il risultato dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali determinato dalla sete di profitto del capitalismo. Tuttavia, è discutibile se si possa ridurre tanto facilmente il disastro ecologico a un effetto dell’espansione capitalista: ci sono state catastrofi ecologiche legate all’azione dell’uomo prima del capitalismo e non c’è ragione per cui una prospera società postcapitalista non dovrebbe trovarsi di fronte allo stesso vicolo cieco.

Ricapitolando, per quanto si abbia sempre una contraddizione principale, le contraddizioni possono scambiarsi l’ordine di importanza. Pertanto, quando abbiamo a che fare con una serie complessa di contraddizioni, dovremmo individuare quella superiore, ma anche ricordare che nessuna contraddizione è statica: con il tempo, si trasformano l’una nell’altra.

Questa molteplicità di contraddizioni non è solo un fatto empirico contingente, ma definisce il concetto stesso di contraddizione: ogni contraddizione dipende dall’esistenza di almeno un’altra, la sua vita è in come interagisce con le altre. Se fosse da sola, non sarebbe una contraddizione (lotta degli opposti) ma un’opposizione stabile. La lotta di classe consiste nel modo in cui sovradetermina i rapporti tra i sessi, lo scontro con la natura nel processo di produzione e le tensioni tra identità razziali e culture differenti.

Per quanto possano sembrare obsolete e irrimediabilmente sorpassate, queste elucubrazioni oggi acquisiscono un nuovo valore. Il mio primo argomento maoista è che, per assumere un atteggiamento corretto nell’ambito delle lotte di oggi, si dovrebbe situare ogni lotta nell’interazione complessa con le altre. A questo proposito, un principio importante è che, contrariamente alla moda corrente, dovremmo attenerci alle forme di opposizione binarie e tradurre ogni manifestazione di posizioni multiple in una combinazione di opposizioni binarie.

Oggi non abbiamo tre posizioni principali (l’egemonia dei moderati del centrosinistra, il populismo di destra e la nuova sinistra), ma ci ritroviamo con due antagonismi: il populismo di destra contro la classe dirigente moderata di centrosinistra. E insieme tutti e due – le due facce dell’ordine capitalista esistente – affrontano la sfida lanciata dalla sinistra.

Cominciamo con un esempio semplice. Macedonia: cosa nasconderà questo nome? Nel 2018, il governo macedone e quello greco hanno concluso un accordo su come ricomporre la disputa sul nome della Macedonia, che a febbraio del 2019 è diventato Macedonia del Nord. All’epoca questa soluzione è stata contestata dai radicali di entrambi i paesi. Gli oppositori greci insistevano che Macedonia è un vecchio nome greco, mentre quelli macedoni si sentivano umiliati per essere stati ridotti a una provincia del nord, dato che sono l’unico popolo a definirsi macedone. Per quanto imperfetta, questa soluzione lasciava intravedere un barlume di speranza sulla fine di una battaglia lunga e insensata, raggiunta con un compromesso ragionevole. Ma è rimasta invischiata in un’altra contraddizione, cioè lo scontro tra grandi potenze: gli Stati Uniti e l’Unione europea da una parte, la Russia dall’altra. Mentre l’occidente premeva su entrambe le parti perché accettassero il compromesso, così da accorciare i tempi d’ingresso della Macedonia nell’Unione europea e nella Nato, per lo stesso motivo la Russia, scorgendo il pericolo di una perdita d’influenza nei Balcani, si opponeva e appoggiava il fanatismo delle forze nazionaliste e conservatrici in entrambi i paesi. Da che parte bisognava stare? Penso che fosse giusto schierarsi nettamente a favore del compromesso, per la semplice ragione che era l’unica soluzione realistica alla disputa. La Russia si opponeva spinta solo da interessi geo­politici senza proporre una soluzione alternativa, perciò appoggiare la Russia avrebbe significato sacrificare agli interessi geopolitici internazionali una soluzione ragionevole al problema delle relazioni tra Grecia e Macedonia.

Ora passiamo a considerare l’arresto a Vancouver, il 1 dicembre 2018, di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria della Huawei e figlia del fondatore dell’azienda. Accusata di aver violato le sanzioni imposte dagli Stati Uniti all’Iran, potrebbe essere estradata negli Stati Uniti dove, se giudicata colpevole, rischierebbe fino a trent’anni di carcere. Cosa c’è di vero in tutto questo? È verosimile pensare che tutte le grandi aziende infrangano la legge in un modo o in un altro, senza dare nell’occhio. Ma è lampante che si tratta solo di una contraddizione secondaria e che è un’altra la battaglia che si combatte qui: non riguarda gli scambi commerciali con l’Iran, ma è un conflitto per il predominio nell’ambito della produzione di hard­ware e soft­ware digitali.

francesca ghermandi

La Huawei è il simbolo di una Cina che non è più la Cina della Foxconn: quello era un paese dove in un regime di semischiavitù si assemblavano apparecchiature sviluppate altrove, questo è un posto dove soft­ware e hardware vengono anche progettati. La Cina ha le potenzialità per diventare un attore molto più forte nel mercato digitale rispetto al Giappone con la Sony o alla Corea del Sud con la Samsung. Sui mezzi d’informazione abbondano i servizi sulle condizioni di lavoro massacranti nelle fabbriche cinesi della Huawei, e qualcuno ipotizza perfino che le sanzioni contro l’azienda possano aiutare concretamente questi operai. Eppure nessuno ha fatto appello al boicottaggio quando le stesse condizioni (se non peggiori) sono state scoperte nelle fabbriche della Foxconn.

Ma basta con i casi specifici. Le cose si fanno più complesse se consideriamo la contraddizione tra la degenerazione della destra suprematista bianca nella volgarità razzista e sessista e il rigido moralismo prescrittivo del politicamente corretto. Dal punto di vista della battaglia progressista per l’emancipazione, è determinante non accettare questa contraddizione come primaria, ma dipanare gli echi distorti della lotta di classe che racchiude. Come nell’ideologia fascista, la figura del nemico creata dal populismo di destra (una mescolanza di élite finanziarie e immigrati invasori) combina entrambe le estremità della gerarchia sociale, offuscando la lotta di classe; dall’altra parte, e in modo quasi simmetrico, l’antirazzismo e l’antisessimo del politicamente corretto nascondono a malapena il loro bersaglio autentico: il razzismo e il sessismo della classe operaia bianca. E così contribuiscono a neutralizzare la lotta di classe. Ecco perché è sbagliato definire “marxismo culturale” l’atteggiamento politicamente corretto: al contrario, il politicamente corretto, con tutto lo pseudoradicalismo che lo contraddistingue, è l’ultimo baluardo della borghesia progressista moderata contro l’idea marxista, nel tentativo di offuscare/dislocare la lotta di classe come contraddizione principale.

Le cose si complicano ancora se consideriamo la lotta per i diritti umani universali. A questo proposito, c’è una contraddizione tra i sostenitori di questi diritti e chi invece ammonisce che, presi nella versione classica, i diritti umani universali non sono affatto universali ma privilegiano implicitamente i valori dell’occidente, quindi sono una forma di neocolonialismo ideologico (non stupisce che il riferimento ai diritti umani sia servito a giustificare numerosi interventi armati, dall’Iraq alla Libia). I sostenitori dei diritti umani universali ribattono che, rifiutandoli, si finisce spesso per giustificare forme di governo autoritarie considerandole solo elementi di uno stile di vita particolare. Come decidere? Un compromesso a metà strada non è sufficiente. Si dovrebbe dare la preferenza ai diritti umani universali per una ragione ben precisa: una dimensione di universalità deve servire a rendere possibile la coesistenza di stili di vita diversi, e il concetto occidentale di universalità dei diritti umani racchiude la dimensione autocritica che rende visibili i propri limiti. Quando il classico concetto occidentale di diritti umani universali viene criticato per i pregiudizi specifici che comporta, questa critica deve richiamarsi a una concezione dell’universalità più autentica, che ci permetta di scorgere la distorsione presente in una falsa universalità. Ma una qualche forma di universalità c’è sempre, e perfino una modesta visione della coesistenza di modi di vita differenti e in definitiva incompatibili deve fondarsi su di essa. Insomma, questo significa che la contraddizione principale non va cercata nella tensione (nelle tensioni) tra diversi modi di vita, ma è la contraddizione tra la particolarità e la pretesa di universalità di ogni stile di vita. Per usare un tecnicismo, ogni stile di vita particolare è preso per definizione in una contraddizione pragmatica: la pretesa di validità è minata non dalla presenza di altri modi di vita ma dalla sua stessa incoerenza.

Il massimo esempio dell’importanza delle contraddizioni secondarie l’abbiamo visto nelle elezioni europee del 2019. Possiamo trarne una lezione? I dettagli talvolta impressionanti (come la clamorosa sconfitta subita dai due principali partiti del Regno Unito) non dovrebbero renderci ciechi di fronte al fatto essenziale che non è successo nulla di veramente notevole e sconcertante. Sì, la nuova destra populista ha fatto netti progressi, ma è ben lontana dal prendere il sopravvento.

Il commento che è stato ripetuto come un mantra, cioè che la gente chiedeva un cambiamento, è profondamente ingannevole: sarà pure così, ma che tipo di cambiamento voleva? In sostanza si tratta della variazione del vecchio adagio “qualcosa deve cambiare perché tutto resti come prima”. Nel complesso la percezione degli europei è che ci sia troppo da perdere per rischiare una rivoluzione (uno stravolgimento radicale), ed è per questa ragione che la maggioranza tende a votare per i partiti che promettono la pace e una vita tranquilla (contro le élite finanziarie, contro la “minaccia degli immigrati” eccetera). È anche il motivo per cui tra gli sconfitti delle elezioni europee del 2019 c’è la sinistra populista, soprattutto in Francia e Germania: la maggioranza non voleva la mobilitazione politica. I populisti di destra hanno saputo interpretare molto meglio questa esigenza: quello che offrono davvero non è la democrazia attiva, ma un forte potere autoritario che dovrebbe mettersi al servizio degli interessi della gente (o di quelli che i populisti presentano come tali). In questo risiede anche il limite fatale del Movimento per la democrazia in Europa (Diem) fondato dall’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, il cui fulcro ideo­logico è la speranza di mobilitare la maggioranza delle persone comuni, di dargli voce spezzando l’egemonia delle classi dirigenti.

francesca ghermandi

Alcuni anni fa ho sentito un aneddoto raccontato da un amico dell’ex cancelliere della Germania Ovest Willy Brandt. Dopo la caduta del muro di Berlino, l’ex leader sovietico Michail Gorbačëv, che si era ormai ritirato dalla vita politica, voleva fare visita a Brandt; si presentò alla porta della sua casa di Berlino, ma Brandt (o il suo domestico) lasciò suonare il campanello e si rifiutò perfino di aprire la porta. In seguito Brandt avrebbe spiegato all’amico che la sua reazione era un’espressione di rabbia nei confronti di Gorbačëv: permettendo la disgregazione del blocco sovietico, aveva scardinato la democrazia sociale occidentale. Era stato il confronto costante con i paesi comunisti dell’Europa dell’est a mantenere sull’occidente una pressione tale da costringerlo a tollerare il welfare socialdemocratico. Una volta svanita la minaccia comunista, in occidente lo sfruttamento diventò più aperto e spietato e anche lo stato sociale cominciò a sfaldarsi.

Nella sua estrema semplicità, quest’idea contiene qualcosa di vero: il risultato finale della caduta dei regimi comunisti è la caduta (o, piuttosto, la disintegrazione prolungata) della socialdemocrazia stessa. L’aspettativa ingenua che il crollo della malvagia sinistra “totalitaria” potesse fare spazio alla bontà della sinistra “democratica” è stata purtroppo smentita.

Una nuova divisione dello spazio politico in Europa sostituisce progressivamente la vecchia contrapposizione tra un partito di centrosinistra e uno di centro­destra che si alternavano al potere: la contrapposizione tra un partito di centrosinistra moderato (favorevole al capitalismo e di cultura moderatamente progressista, favorevole all’aborto e ai diritti degli omosessuali) e un movimento populista di destra. Il paradosso è che i nuovi populisti, anche se sono di cultura conservatrice, quando sono al potere spesso difendono e perfino applicano misure che di solito sono associate alla socialdemocrazia, ma che nessun partito socialdemocratico osa imporre.

Ricalca questo modello il successo dei Verdi alle elezioni europee del 2019. Il voto a favore dei Verdi non va scambiato per il segno di un autentico risveglio ecologista dei cittadini: è stato piuttosto il surrogato di un voto, un succedaneo, il voto di quanti avvertivano chiaramente l’inadeguatezza della politica egemone della classe dirigente europea, rifiutavano la reazione dei nazionalisti-populisti, ma non erano ancora pronti a votare per la socialdemocrazia o addirittura per la sinistra più radicale. È stato il voto di chi voleva avere la coscienza pulita senza agire veramente. In altre parole, quello che salta subito all’occhio guardando i Verdi europei di oggi è che prevale il tono della moderazione: sostanzialmente restano impegolati nell’approccio della “solita politica”, ambiscono a un capitalismo verde di facciata. Siamo ancora lontanissimi dalla radicalizzazione ben più urgente che può emergere solo dalla coalizione dei Verdi con la sinistra radicale.

In questa situazione disastrosa, la posta in gioco non riguarda principalmente il destino dei partiti socialdemocratici come attori politici, ma quello della socialdemocrazia “oggettiva”, come l’ha chiamata il filosofo tedesco Peter Sloterdijk: il vero trionfo della socialdemocrazia è arrivato quando le sue istanze fondamentali (per esempio l’istruzione e l’assistenza sanitaria gratuite) sono state accolte in un programma accettato da tutti i principali partiti e incorporate nelle prassi delle istituzioni statali. Oggi vediamo una tendenza inversa: quando le chiesero quale fosse stato il suo più grande successo, l’ex premier britannica Margaret Thatch­er rispose: “il New Labour”, alludendo al fatto che perfino i suoi avversari del Partito laburista avevano adottato la sua politica economica.

I superstiti della sinistra radicale rispondano con prontezza a questa domanda: la socialdemocrazia sta sparendo proprio perché ha adottato politiche economiche neoliberiste, quindi qual è la soluzione? Ecco dove comincia il problema. La sinistra radicale non ha un programma alternativo percorribile, e la scomparsa della socialdemocrazia europea è un processo più complesso. Innanzitutto, andrebbero osservati i suoi recenti successi elettorali in Finlandia, Slovacchia, Danimarca e Spagna. Poi occorre notare che, per i criteri europei, i “socialisti democratici” statunitensi alla Bernie Sanders non sono estremisti ma modesti socialdemocratici. Nel corso dei decenni passati, la posizione tipica della sinistra radicale rispetto alla socialdemocrazia era di sprezzante diffidenza. Ma quando la socialdemocrazia resta l’unica opzione di sinistra, dovremmo sostenerla, pur sapendo che alla fine fallirà: questa disfatta sarà un’importante esperienza istruttiva per la gente. Oggi, tuttavia, il sistema considera sempre più spesso la socialdemocrazia di vecchio stampo una minaccia: le sue istanze tradizionali non sono più accettabili. Questa nuova situazione richiede una nuova strategia. Da quanto detto, la lezione per la sinistra è: abbandonare il sogno di una grande mobilitazione popolare e concentrarsi sui cambiamenti nella vita quotidiana.

Il vero successo di una “rivoluzione” può essere misurato solo l’indomani, quando le cose tornano alla normalità. Come è percepito il cambiamento nella vita quotidiana delle persone comuni?

Tornando al Regno Unito, il disastro della Brexit non è un’eccezione, è solo l’esito dell’esasperazione di una tensione che attraversa tutta l’Europa. La situazione britannica dimostra che, come avrebbe detto Mao, le contraddizioni secondarie contano. Jeremy Corbyn, in quel momento leader del Partito laburista, ha commesso l’errore di agire come se la scelta “Brexit o no” non avesse grande importanza, così (anche se in cuor suo era favorevole alla Brexit) si è barcamenato in maniera opportunistica tra le due sponde. Nel tentativo di non perdere i voti di nessuno dei due fronti, ha finito per perderli da tutti e due. Ma le contraddizioni secondarie importano eccome: era decisivo schierarsi in maniera netta.

È questa, in termini più generali, la domanda impegnativa che la sinistra europea evita accuratamente: come elaborare a sinistra una nuova idea dell’Europa, anziché soccombere alla tentazione nazionalista e populista. ◆ vs

Slavoj Žižek

è un filosofo e studioso di psicoanalisi sloveno. Questo articolo è tratto dal suo ultimo libro appena uscito in Italia, _Dal punto di vista comunista. Trentacinque interventi inattuali _(Ponte alle Grazie 2020, traduzione di Valentina Salvati).

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Questo articolo è uscito sul numero 1366 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati