Una rappresentanza sindacale in azienda? Violerebbe “praticamente tutti i valori in cui crediamo”. È quanto ha affermato la direzione dell’N-26, una startup berlinese di tecnofinanza, in una lettera ai dipendenti che volevano creare un organismo di rappresentanza ufficiale. La partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale, si legge nella lettera, non è al passo con i tempi, perché rallenta il lavoro rendendone più complicati e gerarchici i suoi meccanismi, e mina le basi della cultura della fiducia. Quest’idea è condivisa da molte giovani aziende tecnologiche e, per rendersene conto, basta dare un’occhiata alla Silicon valley, dove i sindacati non vanno certo per la maggiore. Alphabet (la casa madre di Google), Facebook, Amazon, Microsoft, Apple: non c’è nessuna traccia di partecipazione dei dipendenti alla gestione di queste aziende. Magari è anche giusto così.

Il mondo del lavoro è cambiato, e se c’è qualcuno in grado di avvantaggiarsene è proprio chi lavora per startup e aziende dell’alta tecnologia dove, per tenersi stretti dipendenti molto qualificati e spesso esigenti, i datori di lavoro devono darsi da fare. Se le cose stanno così, a cosa servirebbe una contrattazione collettiva sulle condizioni di lavoro o sui salari? Infatti per molto tempo sono scomparsi dal dibattito. Oggi, però, i lavoratori del settore tecnologico stanno cambiando atteggiamento. Per esempio quelli dell’industria dei videogiochi: Game workers unite, un movimento di base fondato in California, riunisce sviluppatori e designer di giochi, sia dipendenti sia freelance. Non li fa scendere in piazza, ma li invita a partecipare a campagne sui social network e a veri e propri scioperi nelle aziende statunitensi ed europee. Nel 2020 la Game workers unite ha partecipato anche alla Campaign to organize digital employees (Code), una campagna internazionale avviata insieme ai sindacati tradizionali con l’obiettivo di mettere in rete movimenti di base e lavoratori insoddisfatti del settore tecnologico.

Poi c’è la Tech workers coalition, fondata nella Silicon valley, che unisce sviluppatori di software e altri dipendenti di aziende tecnologiche in gruppi organizzati su Slack. Ormai le propaggini dell’organizzazione arrivano nel Regno Unito, in Brasile, India, Italia e Germania.

Le chat su Slack

Questi nuovi movimenti dei lavoratori hanno in comune una cosa: vogliono sfatare il mito di un mondo del lavoro digitale colorato e divertente, dimostrando che la realtà spesso ha poco a che spartire con le solenni missioni aziendali o le idealistiche finalità sociali che il settore ama sbandierare. I sindacalisti parlano invece di salari ingiusti, mancanza di garanzie, razzismo e discriminazione. Denunciano anche metodi tipici del settore, come il cosiddetto crunch attuato dai produttori di videogiochi, che prima dell’uscita di un nuovo titolo costringono gli sviluppatori a lavorare giorno e notte.

Alla base del successo di queste mobilitazioni c’è anche il fatto che gli attivisti sanno molto bene come attirare l’attenzione. “Per mobilitare le persone, i nuovi movimenti di base del settore digitale sfruttano i social network e strumenti come Slack e Whats­App, oppure si costruiscono da soli piattaforme e app”, racconta Kurt Vandaele, ricercatore dell’European trade union institute di Bruxelles che si occupa di giovani sindacati e nuove forme di negoziazione salariale collettiva. I sindacalisti digitali agiscono in modo decentrato e flessibile, senza tessere d’iscrizione e cavilli burocratici. Quando c’è un problema, si organizzano rapidamente su app e piattaforme di mobilitazione e, per esercitare pressione sui datori di lavoro, lanciano azioni di protesta e campagne online di grande visibilità. Gli studiosi parlano di organizing on-demand (coordinamento a richiesta). Sembra proprio che per molti lavoratori del settore tecnologico questa sia la modalità di organizzazione più adatta: non s’identificano facilmente con i sindacati tradizionali e con i loro pesanti apparati burocratici, che si occupano di problemi politici di tutt’altra portata.

Le nuove organizzazioni di lavoratori non si rivolgono solo agli ingegneri e agli sviluppatori di videogiochi delusi, ma anche a quel precariato digitale sorto negli ultimi anni intorno ad aziende di trasporti come Uber e Lyft o a servizi di consegna a domicilio come Deliveroo. Sono i cosiddetti gig worker o crowd worker: guidano taxi, puliscono case e testano software sulla base di incarichi assegnati in modo automatico da un algoritmo. In genere non sono assunti dall’azienda e hanno scarsissime possibilità di incidere sulle proprie condizioni di lavoro. “I movimenti di base parlano a categorie di lavoratori dipendenti e freelance che non rientrano tra gli interlocutori classici dei sindacati tradizionali”, spiega Vandaele.

I lavoratori che si sono uniti su piattaforme online come Coworker (coworker.org) hanno già ottenuto le prime conquiste: per esempio una funzione che assicura le mance agli autisti Uber negli Stati Uniti e alcune misure di protezione contro il covid-19. Di recente un tribunale californiano ha imposto a Uber e Lyft di concedere lo status di dipendenti ai loro autisti. Secondo Vandaele è probabile che, nei tempi economicamente difficili che ci aspettano, avranno molto seguito sia i sindacati tradizionali sia i nuovi movimenti di base. “Con la crisi molti si rendono conto che devono mobilitarsi in difesa dei loro interessi”.

Ambiente insicuro

Le nuove organizzazioni dei lavoratori e i movimenti dal basso ormai non sono più confinati alla Silicon valley, ma si stanno diffondendo anche in Europa. Nel Regno Unito, Nat Whalley e Bex Hay hanno fondato Organise (organise.org.uk). Sul sito i lavoratori dipendenti e freelance possono mettersi in contatto e organizzare campagne per rivendicare condizioni di lavoro migliori. “Nel 2017 abbiamo fondato Organise perché abbiamo capito che sono sempre di più le persone che lavorano per imprese organizzate in modo decentrato o per piattaforme”, dice Whalley. “Di conseguenza per loro è praticamente impossibile incontrare i colleghi sul posto di lavoro e discutere dei problemi. Quando l’ambiente di lavoro diventa insicuro – è il caso dei lavoratori che non si sentono protetti dal covid-19 o che sono costretti a confrontarsi con il sessismo, il razzismo o i salari ingiusti – le persone si sentono isolate e cercano aiuto per risolvere i loro problemi: solo che non sanno a chi rivolgersi. Organise vuole essere uno strumento per mettere in rete i lavoratori a livello aziendale, regionale o di settore”.

Al momento dell’iscrizione a Organise si indica il datore di lavoro, la professione, la mansione e le proprie rivendicazioni sindacali. La piattaforma garantisce l’accesso in forma anonima a una rete di persone impiegate presso lo stesso datore di lavoro o che avanzano le stesse richieste. Inoltre fornisce strumenti digitali per far valere i propri diritti: si possono avviare petizioni online, sondaggi e campagne sui social network, oppure indirizzare lettere aperte a politici e dirigenti aziendali. Ci si può anche unire a campagne già in corso con obiettivi simili.

Los Angeles, Stati Uniti, agosto 2019. Emma Kinema, sindacalista di Game workers unite (Allison Za​ucha, The New York Times/Contrasto)

In questo modo nel giro di pochi giorni o poche settimane una determinata iniziativa raccoglie spesso centinaia se non migliaia di partecipanti. È proprio di fronte a problemi urgenti come la crisi provocata dal covid-19 che sono stati raggiunti risultati in tempi brevi. Grazie a una di queste campagne, per esempio, una lavoratrice freelance ha ottenuto che i lavoratori autonomi non fossero più esclusi dai sussidi pubblici per il covid-19. Un camionista e i suoi colleghi hanno ottenuto di potersene andare direttamente a casa dopo un viaggio, senza dover restare con altri camionisti a mensa in attesa di nuovi incarichi, evitando così di aumentare il rischio di contagio da covid-19.

Quasi tutti i servizi di Organise sono gratuiti. Whalley e Hay precisano che la piattaforma non vuole sostituirsi ai sindacati tradizionali, ma integrarne il lavoro: “Ora la usano anche loro per rafforzare le proprie campagne”, spiega Whalley.

I due fondatori avevano già fatto esperienza di proteste digitali. Whalley ha contribuito a sviluppare ChangeLab, una tecnologia per organizzare iniziative e attività, e poi ha collaborato con la piattaforma per petizioni 38 Degrees. Hay, invece, ha fondato l’Initiative Amazon anonymous, un movimento online di boicottaggio a cui si sono unite più di 200mila persone con l’obiettivo di costringere l’azienda statunitense a garantire migliori condizioni di lavoro.

In Germania Jörg Sprave ha fondato la Youtubers union, un movimento internazionale che si propone di migliorare le condizioni di lavoro di chi produce video su YouTube. “Il mio hobby sono le catapulte. Costruisco fionde per lanciare sassi, ma anche biscotti, frecce e spazzoloni del water. Per un bel po’ i video su YouTube mi hanno fatto guadagnare bene, in media seimila dollari al mese. Il mio canale ha più di due milioni di follower. Ma nel 2018 YouTube ha cambiato le sue regole e, visto che le catapulte sono considerate armi, i miei video sono stati classificati come inadatti ad attirare pubblicità”.

La stessa cosa è successa a molti altri, che per motivi non proprio comprensibili all’improvviso hanno smesso di guadagnare con i video. “Ma noi con YouTube ci lavoriamo”, spiega Sprave. “Non è giusto che vengano cambiate le regole senza consultarci e che si prendano decisioni così arbitrarie e poco trasparenti. Per questo ho fondato la Youtubers union”. All’inizio era un gruppo attivo su Facebook, oggi ha più di 27mila aderenti in tutto il mondo. “Sono persone che non si iscriverebbero mai a un sindacato tradizionale. Possono riunirsi online per perseguire un obiettivo comune, ma non vorrebbero mai aderire a un’organizzazione di quel tipo”. Online è molto difficile raccogliere quote associative o finanziare una cassa per gli scioperi. Anche dal punto di vista giuridico un sito come quello di Sprave non potrebbe diventare un vero sindacato, perché opera a livello transnazionale.

Da sapere
Tavolo dei negoziati
Quota di lavoratori iscritti a un sindacato, %, 2017 (fonte: ocse, financial times)
Quota di lavoratori che partecipano alla contrattazione collettiva, %, 2017 (fonte: ocse, financial times)

Nel 2019 la Youtubers union ha avviato una collaborazione con la Ig Metall, il grande sindacato dei metalmeccanici tedeschi. Hanno organizzato insieme la campagna Fairtube, che ha attirato una grande attenzione. “Noi ci siamo mobilitati sui canali digitali e la Ig Metall ha usato i suoi canali tradizionali. L’obiettivo era convincere i tribunali a riconoscere che gli youtuber sono dei lavoratori autonomi fittizi”, racconta Sprave.

A quel punto Google, che fino ad allora non si era interessato molto alla vicenda, ha cominciato ad ascoltare i suoi dipendenti. Sapeva bene che una sentenza che riconosce più diritti ai produttori di video in Germania o in Europa avrebbe avuto degli effetti anche nel resto del mondo. In pratica, se ogni paese si fosse dato delle regole per i lavoratori del settore, la situazione sarebbe diventata insostenibile per il colosso statunitense: gli sarebbe sfuggita di mano, con il rischio di trovarsi continuamente esposto ad azioni giudiziarie.

“In questo momento”, dice Sprave, “stiamo cercando di individuare la forma giuridica più adatta al nostro movimento, che ci permetterà di operare a pieno titolo in molti paesi. Vorremmo avviare collaborazioni con i sindacati locali. È quello che è successo con i colleghi di Uber e Lyft in California, dove i tribunali sono pronti a schierarsi al fianco di chi lotta perché i lavoratori delle piattaforme digitali abbiano più diritti”.

Nuove realtà

Frederik Zoëga dirige la sezione innovazione dell’Hk Lab, un laboratorio con cui il sindacato danese Hk si propone di adattarsi alle nuove realtà digitali. “Mi sono sempre interessato a due cose: la tecnologia e la politica. Oltre a studiare informatica, ho militato in organizzazioni sociali e politiche. A un certo punto mi sono chiesto: perché i sindacati non usano di più la tecnologia per facilitare il loro lavoro e concentrarsi meglio sui bisogni degli iscritti?”.

Spesso i sindacati tradizionali non sfruttano le possibilità offerte dalla tecnologia. In Danimarca le organizzazioni dei lavoratori sono molto potenti, nello stato sociale svolgono un ruolo importante. I loro iscritti comprendono più di due terzi di tutti i lavoratori dipendenti. Con la digitalizzazione il mondo del lavoro sta cambiando alla velocità della luce, e i sindacati devono saper stare al passo con gli sviluppi tecnologici delle aziende e con i nuovi problemi che ne derivano. Le aziende usano i dati, gli algoritmi e l’intelligenza artificiale anche per gestire il personale e organizzare il lavoro in fabbrica.

Nel 2018 Zoëga ha scoperto l’Hk Labs e oggi dirige il loro Innovation lab insieme a Christel Spliid. “Ci concentriamo su piattaforme e applicazioni che aumentano la trasparenza sulle condizioni di lavoro e i salari. Per esempio abbiamo sviluppato un chatbot rivolto ai giovani che sono al primo impiego. Si tratta spesso di adolescenti con cui le telefonate e le email funzionano poco. Di certo queste persone non visitano i siti internet dei sindacati – neanche di quelli a cui sono iscritti – né telefonano per avere informazioni. Il nostro chatbot, che si può consultare su social network come Facebook, risponde a domande sui diritti dei lavoratori. Per esempio: quanto dev’essere lunga la mia pausa pranzo? Cosa mi spetta se mi ammalo? Quanto devono pagarmi? Gli utenti scrivono le domande e il bot risponde”. Il laboratorio, inoltre, ha sviluppato un prototipo di consulente virtuale per i dipendenti che vorrebbero mettersi in proprio senza perdere diritti e garanzie previdenziali. È in preparazione anche uno strumento online per la giustizia salariale: sulla base di qualifiche professionali e dati relativi al settore e al territorio, un algoritmo calcola il salario adeguato a vari lavori e tipi di attività. “Ci siamo accorti che negli annunci di lavoro le imprese spesso non specificano il salario. Quindi i candidati non sanno quanto aspettarsi – e quanto pretendere – in un dato settore. Anche chi già lavora, raramente sa se quello che percepisce è un salario giusto. Quest’applicazione porta trasparenza. Fa sentire i candidati più sicuri di sé nei colloqui di lavoro e li aiuta a ottenere il giusto nelle contrattazioni salariali”. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati