La volta nebbiosa della foresta pluviale dell’Africa centrale si stende fino all’orizzonte come un oceano verde. Più in basso, lunghi fiumi serpeggianti solcano il paesaggio, a volte di un marrone torbido e altre di un azzurro limpido sotto il cielo aperto. Gli elefanti della foresta avanzano pesantemente nel sottobosco, i buceri volteggiano in alto e i gorilla di montagna meditano nell’ombra. E da qualche parte, in questa distesa primordiale, è in agguato un dinosauro.

Emmanuel Mambou, un pescatore che vive nell’interno della Repubblica del Congo, sostiene di averlo visto. Fin da quando era bambino va a pesca negli affluenti del fiume Congo. E non esita a raccontare, con ricchezza di dettagli, il suo incontro a tu per tu con il presunto dinosauro che abita nel bacino, il mokele-mbembe.

In una calda notte di luna piena del 2024, seduto sulla riva del fiume, Mambou stava cucinando sul fuoco un pesce gatto appena pescato. Gli altri pescatori si sono messi a ridacchiare quando ha cominciato a ripetere la storia del mokele-mbembe per quella che secondo loro era la centesima volta.

Stando ai suoi ricordi, l’avvistamento avvenne un ottobre di diversi anni fa, mentre nel nord del Congo infuriava la stagione dei monsoni. Mambou stava scivolando sul fiume con la sua piroga e aveva appena gettato la rete quando, a una trentina di metri di distanza, vide l’acqua incresparsi e sollevarsi. Una sagoma scura emerse. E Mambou giura — sulle sue figlie, sui figli, sulla moglie e perfino su dio — che era il mokele-mbembe. Ma Joseph Oyange, un naturalista congolese seduto intorno al fuoco insieme a noi, si è limitato a scuotere la testa e ha mormorato al suo amico: “Probabilmente era un ippopotamo”.

Il mokele-mbembe è il bigfoot del bacino del Congo. O almeno lo è diventato: un criptide. Nessuno conosce le origini del mito, ma è nato tra le comunità della regione, che lo hanno tramandato oralmente. Gli abitanti del posto dicono che all’inizio il mito era spirituale —una metafora, forse, del delicato rapporto del genere umano con la terra. Ma oggi è impossibile sapere cosa significasse esattamente, perché molto tempo fa gli stranieri lo distorsero fino a renderlo irriconoscibile.

“I congolesi credevano che il mokele-mbembe fosse un essere spirituale, non un vero dinosauro”, mi ha detto Oyange. “Ma tutto cambiò quando in Africa arrivarono i bianchi”. La concomitanza dell’espansione coloniale europea in Africa con la nascita della paleontologia diede origine a una versione del mokele-mbembe come vero e proprio rettile che abitava nelle paludi. Le storie ripetute da esploratori, missionari e funzionari coloniali furono deformate da idee ispirate alla letteratura vittoriana e alla scienza emergente.

“L’idea che abbiamo oggi del mokele-mbembe è dovuta interamente agli esploratori europei della fine dell’ottocento e dell’inizio del novecento”, mi ha detto lo scrittore e paleontologo britannico Darren Naish.

La “dinosaurizzazione” di quella che inizialmente era un’entità spirituale astratta è ormai la caratteristica distintiva del mokele-mbembe. Il mito è stato così snaturato che molti congolesi — compreso Mambou — ne parlano come del mostro occidentalizzato di oggi, e non come la metafora ecologica popolare che era in origine.

E oggi, a più di un secolo di distanza, questa versione del mito è sostenuta da zelanti gruppi evangelici, convinti che un dinosauro vivente possa contraddire uno dei fondamenti della scienza vittoriana: la teoria dell’evoluzione.

Per i creazionisti cristiani è una prospettiva irresistibile. Un dinosauro simile a un sauropode nascosto nella giungla, a loro giudizio, dimostrerebbe finalmente che il nostro pianeta non esiste da miliardi di anni. È per questo che hanno finanziato varie spedizioni nel bacino del Congo nella speranza di trovare il mokele-mbembe e usarlo per confutare il darwinismo.

Queste spedizioni non hanno mai concluso niente, ma sono riuscite a consolidare, nella coscienza occidentale e nella mente di molti congolesi, la convinzione che il mokele-mbembe sia reale. E se non reale, allora semplicemente ridicolo. Ciò che un tempo era radicato nella tradizione popolare è stato trasformato in qualcos’altro: una storia che fa ancora notizia, ma è quasi sempre interpretata nel modo sbagliato.

Fedeli alla linea

Quando William Gibbons mise piede in Congo per la prima volta, nel novembre del 1985, non stava semplicemente inseguendo un dinosauro: era impegnato in una missione spirituale. Per quasi sette mesi perlustrò la giungla cercando tracce del mokele-mbembe, nella speranza di smentire la teoria dell’evoluzione.

Gibbons crede nella teoria della Terra giovane. In altre parole, è convinto che Dio abbia creato il mondo in sei giorni, che il pianeta abbia appena qualche migliaio di anni, e che tutti gli animali esistiti —dinosauri compresi — siano stati imbarcati a coppie sull’arca di Noè. Per i creazionisti come Gibbons, il libro della Genesi non è un’allegoria, ma un documento storico.

Una convinzione diffusa tra i creazionisti è che se i dinosauri esistessero ancora – in Congo, in Amazzonia o in Papua-Nuova Guinea — la loro scoperta farebbe crollare il darwinismo, o almeno solleverebbe seri dubbi sul metodo scientifico.

“La prospettiva forse più entusiasmante per il mondo della scienza creazionista è la possibilità che i dinosauri vivano ancora nelle giungle remote del pianeta”, scriveva Gibbons nel 2002 per l’Istituto per la ricerca sulla creazione, un’organizzazione no profit che sostiene di studiare le prove scientifiche contro la teoria evoluzionistica.

“L’evoluzione, che implica la necessità di lunghe ere di sviluppo evolutivo, avrebbe grosse difficoltà a spiegare l’esistenza di un dinosauro vivente”, suggeriva. “È il caso del mokele-mbembe, una creatura che a detta di alcuni scienziati potrebbe essere un sauropode sopravvissuto. L’unica zona che oggi è in grado di ospitare dinosauri sono le vaste e inesplorate paludi dell’Africa equatoriale”.

Gibbons vagò per mesi intorno al lago Tele, nel remoto nord della Repubblica del Congo. Insieme alla sua squadra avvistò gorilla, scimpanzé, pitoni, coccodrilli e tartarughe, ma nessun dinosauro. Comunque, scrisse che “la paura del mokele-mbembe è considerevole tra i congolesi delle aree rurali”.

Nel parco a tema Jurassic Forest a Gibbons, in Canada (Designpics/Image source limited/Alamy)

Nel novembre 1992 Gibbons tornò in Congo con lo stesso obiettivo. Dopo aver risalito i fiumi fino a una remota regione del nord, raccontò la sua esperienza in un articolo per l’istituto. “Molti abitanti della regione di Likouala sanno esattamente dove potremmo osservare e filmare un esemplare di mokele-mbembe”, scriveva, “ma credono che parlarne apertamente con degli stranieri bianchi significhi morte”.

La guerra civile mandò all’aria i suoi piani per una terza spedizione, e così per continuare la ricerca Gibbons puntò sul Camerun. Nel 2000 raggiunse con la sua squadra il sud del paese, dove raccolse “testimonianze oculari dirette di attività del mokele-mbembe tra il 1986 e l’aprile 2000”, come riporta il suo resoconto di allora. Nel febbraio 2002 Gibbons tornò ancora una volta in Camerun con quella che definì una “spedizione cristiana di quattro uomini”. Ma come mi ha detto il paleontologo Naish, “lui e i suoi amici non hanno mai trovato nulla”.

La mancanza di prove concrete non ha fermato la caccia al misterioso animale. E non sono stati solo i creazionisti come Gibbons a partire alla ricerca del mostro. Anche moltissimi mezzi d’informazione hanno dedicato ampio spazio a questa creatura.

Nel 2011 il sito statunitense Vice News trasmise un documentario di nove minuti condotto dall’artista di graffiti David Choe. L’obiettivo? Trovare il presunto dinosauro del Congo. All’inizio del documentario, Choe descrive la scena: “C’è un’area di foresta pluviale fitta, densa e incontaminata grande quanto la Florida”, dice in tono drammatico. “È l’unica zona sopravvissuta all’ultima era glaciale, ed è l’ultimo luogo sulla Terra dove si crede che vivano ancora dinosauri in carne e ossa”.

Da Brazzaville, la capitale della Repubblica del Congo, accompagnato da una troupe di Vice e da una squadra di guide locali, Choe si diresse a nord verso il lago Tele, il luogo dove sarebbe più probabile che viva il mokele-mbembe. Il suo documentario è bizzarro e caoticamente divertente: lo si vede seduto sul letto dell’hotel che suona dei tamburi mentre un trio di donne nere completamente nude balla dietro di lui. Poi un missionario statunitense gli racconta che due suoi compagni avrebbero visto l’animale con i loro occhi. Più avanti, la visita a un villaggio remoto termina con un abbondante consumo rituale di alcol e si vede un abitante vestito da dinosauro che esce dai cespugli e si agita davanti a Choe, istupidito dalla sbornia.

Ma nessun vero dinosauro viene trovato. Il film si chiude con un Choe demoralizzato che dice: “Forse dovremo tornare. Vedremo”, prima di immergersi nell’acqua torbida di un lago, seguito dai titoli di coda.

Nonostante il fallimento della ricerca, il documentario ebbe un clamoroso successo: è stato visualizzato più di 1,7 milioni volte su YouTube e ha attirato l’attenzione del podcaster Joe Rogan. Nel 2020 Choe è stato ospitato nel suo podcast, per parlare dei suoi tentativi di trovare il mokele-mbembe. “Quando ho visto il tuo video”, dice Rogan, “mi sono detto, ‘Guarda questo tizio, è pazzesco. Sta cercando un fottuto brontosauro nel bel mezzo del Congo’”.

Nel 1997 qualcuno sostenne che nelle sculture dei templi di Angkor Wat, in Cambogia, fosse raffigurato uno stegosauro

Ma spedizioni come quelle di Gibbons e Choe non sono una cosa recente. Per tutto il novecento molti occidentali si sono fatti largo a colpi di machete nella fitta vegetazione del Congo nella speranza di avvistare la creatura.

Oyange, il naturalista congolese, trova che queste spedizioni criptozoologiche non hanno senso. “Sai, se gli stranieri pensassero che il mokele-mbembe è un essere spirituale, come è stato insegnato a me, probabilmente non perderebbero tutto questo tempo a cercarlo. Perché se esiste, non esiste come un elefante, o come me e te”, mi ha detto in un ristorante indiano di Brazzaville. “Nessuno cerca Pachamama sulle Ande, per esempio”, ha continuato riferendosi alla divinità inca. “E se vai a cercarla, lo fai con gli occhi e con l’anima, non con una videocamera. Perché Pachamama, come il mokele-mbembe, è uno spirito, non un organismo vivente”.

La febbre dei fossili

A partire dalla fine dell’ottocento, Europa e Stati Uniti furono travolti dalla “dinomania”. La fascinazione per il mondo preistorico esplose durante la “guerra delle ossa” (nota anche come “grande corsa ai dinosauri”) una rivalità assurdamente accesa tra due paleontologi baffuti, Edward Drinker Cope, dell’accademia di scienze naturali di Filadelfia, e Othniel Charles Marsh, professore di paleontologia a Yale, che batterono l’ovest degli Stati Uniti alla ricerca di fossili. I due studiosi erano così in competizione che non esitarono a usare mezzi estremi pur di superarsi a vicenda: furti, calunnie, corruzione e perfino la distruzione dei fossili. Alla fine si ritrovarono entrambi completamente rovinati.

Ma la guerra delle ossa non si può ridurre a un’accanita rivalità tra due uomini. Quella sfida portò a importanti scoperte. Nuove specie preistoriche ricevettero una denominazione ufficiale nella letteratura scientifica, e per la prima volta i dinosauri furono portati all’attenzione del grande pubblico.

Nello stesso periodo a New York fu inaugurato il museo americano di storia naturale e, sull’altra sponda dell’Atlantico, aprì il museo di storia naturale di Londra. All’inizio del novecento, il museo newyorchese ospitava una delle più grandi collezioni di fossili di dinosauri al mondo. Negli Stati Uniti e nelle principali capitali europee spuntavano esposizioni magnifiche che attiravano frotte di curiosi. Il periodo fu chiamato la “prima età dell’oro della raccolta di fossili”.

Nel 1907 Andrew Carnegie finanziò una spedizione che scoprì uno scheletro di diplodoco nel Wyoming e fece realizzare dei calchi che poi inviò ai musei di tutta Europa, tra cui Londra, Parigi, Berlino e San Pietroburgo.

Nel frattempo, a spese del museo di storia naturale di Berlino, il paleontologo tedesco Werner Janensch guidò spedizioni alla formazione fossilifera Tendaguru, in Tanzania. La squadra di Janensch estrasse montagne di ossa di dinosauri del giurassico. Furono gli abitanti del posto, spesso sottopagati e costretti con la forza, a realizzare la maggior parte degli scavi. Ma i fossili non rimasero in Tanzania, perché vennero subito spediti in Europa.

Lo sviluppo della paleontologia e la sempre maggiore popolarità dei musei furono accompagnati da un’ampia fascinazione per il mondo preistorico. Furono pubblicate storie che avevano come protagonisti vigorosi avventurieri bianchi che affrontavano terre tropicali lontane ed esotiche dove ancora vagavano i dinosauri.

Questo periodo creò le basi per la moderna interpretazione del mokele-mbembe. Nel 1912 Arthur Conan Doyle pubblicò Il mondo perduto, che parla di dinosauri sopravvissuti su un altopiano isolato nella giungla. Qualche anno dopo, film come The dinosaur and the missing link e King Kong assecondarono la passione del tempo per i luoghi “primitivi” e soprattutto per i dinosauri.

Appena un anno dopo l’uscita del Mondo perduto, il funzionario coloniale tedesco Ludwig Freiherr von Stein inviò i resoconti inediti del suo soggiorno in Congo allo scrittore Wilhelm Bolsche. “Nel 1913 la prima relazione di von Stein descriveva il mokele-mbembe come un essere rettiliano che viveva nelle caverne e combinava le caratteristiche di diversi animali africani conosciuti”, spiega Adrienne Mayor, storica della scienza e del folklore all’università di Stanford, negli Stati Uniti.

I giornali occidentali si buttarono sulla storia, paragonando il misterioso animale al famoso brontosauro. Tutto quello scalpore attirò altri esploratori, che arrivarono con schizzi di dinosauri e domande capziose per i bantu e altri popoli del bacino del Congo. Per decenni, questo ciclo si autoalimentò, trasformando le ipotesi in presunte prove e alterando gradualmente il significato culturale originario del mokele-mbembe.

Mentre l’interesse aumentava, un’ondata di esploratori si avventurò nel Congo in cerca di dinosauri. Per gli stranieri, l’Africa era il “continente nero” e il Congo il suo “cuore di tenebra”. Naish mi ha detto che quegli esploratori non partivano da zero: pensavano già che l’Africa equatoriale fosse un luogo dove potevano esistere queste creature, un luogo dove la preistoria era ancora viva.

“L’idea che nell’Africa tropicale si possano trovare il mokele-mbembe e altri mostri preistorici nasce dalla convinzione che quella regione sia a un livello di arretratezza quasi preistorico”, ha continuato Naish. “Non è un posto moderno e sviluppato come altre parti del mondo, ma una fetida palude tropicale dove sono sopravvissute cose della preistoria. È una rappresentazione coloniale e in un certo senso razzista dell’Africa”.

Di chi è la storia

Nella primavera del 2024, appena tornato a Brazzaville dopo alcune settimane di lavoro nella foresta pluviale, stavo bevendo un caffè al tavolino di un bar. Ero ancora un po’ sporco e trasandato, e questo attirava gli sguardi curiosi dai passanti. Una donna al tavolo accanto mi ha chiesto se poteva sedersi con me. Si chiamava Veronique e parlava un buon inglese. Ci siamo divisi un croissant chiacchierando di vari argomenti — dal presidente Denis Sassou Nguesso al mokele-mbembe. “Quando ero piccola, mi dicevano che era un protettore dei corsi d’acqua”, mi ha detto Veronique. “In realtà è un simbolo. Un po’ come la natura che dà la vita, ma può anche causare la morte”.

Anche Selah Abong’o, un’ambientalista locale, mi ha detto che da bambina, vivendo in un villaggio nel nord del Congo, si era fatta l’idea che il mokele-mbembe fosse qualcosa di più astratto — una metafora di madre natura. È considerato sacro e forse addirittura tabù, ha aggiunto. “Penso che il mokele-mbembe sia essenzialmente un monito: dobbiamo rispettare il fiume e la foresta, perché altrimenti potremmo essere distrutti”.

Come sottolinea Adrienne Mayor, l’incomprensione e la distorsione delle tradizioni popolari non riguardano solo il mokele-mbembe. Nel 1997 qualcuno sostenne che nelle sculture dei templi di Ang­kor Wat, in Cambogia, fosse raffigurato uno stegosauro. Agli occhi di un occidentale, il bassorilievo sembrava raffigurare un animale strano e massiccio con grandi scaglie lungo la colonna vertebrale. Alcuni ipotizzarono che fosse una bufala organizzata dalle troupe cinematografiche che avevano visitato il sito prima che diventasse un’attrazione turistica.

Mayor è stata ad Angkor Wat nel 2010. Mi ha raccontato che la sua guida cambogiana, un ex insegnante, considerava il bassorilievo uno scherzo. “Quelle grandiose rovine invase dalla vegetazione sono un’ambientazione perfetta per immaginare una civiltà perduta e primitiva che coesisteva con i dinosauri preistorici”, mi ha detto. Secondo lei, così come è avvenuto con la storia del mokele-mbembe, il mondo esterno si è appropriato di Angkor Wat, imponendo interpretazioni che distorcono o addirittura offendono il significato originale.

Ha anche sottolineato che la “dinosaurizzazione” della tradizione orale del mokele-mbembe ricorda l’erronea interpretazione degli antichi petroglifi e pittogrammi negli Stati Uniti occidentali come raffigurazioni di dinosauri. Secondo i creazionisti della Terra giovane, certe immagini scolpite nella roccia suggeriscono che gli indigeni paleoindiani vissero fianco a fianco con i dinosauri. L’esempio più noto, ha detto Mayor, sono le due incisioni rupestri di Kachina Bridge, nello Utah. Alcuni, tra cui i creazionisti, sostengono che quelle immagini raffigurino un sauropode e un triceratopo.

“Se sono gli oppressori a raccontare al mondo la nostra storia”, mi ha detto Veronique, “di chi è veramente quella storia? Nostra o loro?”.

La sera prima di lasciare il Congo, un uomo mi ha invitato a cena a casa sua. Non ho potuto fare a meno di portare il discorso sul mokele-mbembe. Mi ha raccontato che da bambino sua madre gli descriveva il mokele-mbembe come uno spirito acquatico. “Se avessi disturbato i luoghi in cui viveva mi avrebbe portato sfortuna. La natura si sarebbe vendicata e avrei avuto una disgrazia”.

Ho bevuto un sorso di birra Ngok e poi ho chiesto: “Quindi non credi che da qualche parte là fuori ci sia davvero un dinosauro?”.

Oko mi ha guardato, ha alzato un sopracciglio e poi è scoppiato a ridere. “No”, ha risposto scuotendo la testa. “Non ci credo”. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati