“Hai visto che tua nonna è diventata virale su Face­book in Albania?”, mi ha scritto un parente. “Parlano tutti della foto”.

È una vecchia foto in bianco e nero, pubblicata sui social da qualcuno che non ho mai visto e di cui non so nulla. Nell’immagine una giovane coppia elegante distesa sui lettini da sole guarda dritto nell’obiettivo, davanti a un hotel di lusso. Sullo sfondo, sotto un portico, s’intravede un paio di sci appoggiato al muro. Il sorriso ampio e l’aria vagamente assorta di lei contrastano con lo sguardo serio e penetrante dell’uomo accanto. Su un tavolino, un pacchetto di sigarette; sotto, una sporta di carta, raffinata ma discreta. Si riesce appena a leggere il nome stampato: “Hotel Vittoria”.

Non ci ho messo molto a riconoscere i miei nonni in quella foto. Dai vestiti invernali, dal nome dell’hotel e dagli sci sullo sfondo ho capito che è stata scattata durante la loro luna di miele a Cortina d’Ampezzo, sulle Alpi italiane. Era il 1941. Mia nonna parlava spesso e con grande affetto di quei dieci giorni trascorsi sulle Dolomiti. “Mi sentivo la persona più felice del mondo”, diceva, “e Cortina era il posto più felice del mondo”. Sì, davvero, insisteva, anche se si trattava dell’Italia, e anche se era l’inverno del 1941.

Spesso mi sono chiesta cosa intendesse davvero. L’operazione Barbarossa in Unione Sovietica, l’attacco a Pearl Harbor, la resistenza partigiana in Jugoslavia: tutte queste notizie riempivano le prime pagine dei giornali mentre lei prendeva lezioni di sci, godendosi l’aria frizzante dell’inverno. Non le importava delle battaglie più feroci della guerra più brutale nella storia dell’umanità? Oppure era uno di quegli scherzi della memoria, in cui la ricostruzione del passato non dipende tanto da ciò che si è vissuto, quanto da come l’esperienza viene riplasmata dai traumi successivi? Purtroppo, non c’era nulla da cercare: tutti i documenti di famiglia erano scomparsi cinque anni dopo quella foto, “quando è venuta la polizia e ha portato via tutto”, diceva lei.

Mia nonna, Leman Ypi (da ragazza Leskoviku) era nata a Salonicco nel 1918 in una famiglia dell’élite ottomano-albanese. La città, un tempo un centro cosmo­polita e vivace dove i musulmani come lei convivevano pacificamente con gli ebrei sefarditi, i cristiani e gli atei, stava cambiando rapidamente, e non sempre in meglio: con il crollo degli imperi asburgico, russo e ottomano si stavano affermando il protezionismo e il nazionalismo, e le minoranze erano sempre più strumentalizzate.

I nonni di Lea Ypi in vacanza a Cortina d’Ampezzo, 1941 (Dr)

Per sfuggire a tutto questo, a diciott’anni decise di trasferirsi da sola in Albania. Fu in quel periodo che conobbe mio nonno, un laureato in giurisprudenza alla Sorbona. Nonostante fosse il figlio di un noto politico fascista albanese, era un socialista convinto, simpatizzante di Léon Blum e attivo nella campagna per il Fronte popolare francese. Si sposarono nel 1941. Nel 1946, finita la guerra, mio nonno fu arrestato dal governo comunista albanese con l’accusa di sedizione e propaganda, e condannato a quindici anni di prigione.

Un anno dopo il ministero dell’interno della repubblica popolare socialista d’Albania aprì un fascicolo su mia nonna. Fu messa sotto sorveglianza, sospettata di essere una spia greca. Rimasta sola ad accudire il figlio piccolo, fu mandata a lavorare in una fattoria collettiva. Due volte all’anno andava a trovare il marito in prigione finché fu liberato, nei primi anni sessanta. Quattro volte all’anno la convocavano negli uffici della sicurezza, dove le fu più volte offerta la possibilità di diventare un’informatrice.

Questi erano i fatti della sua vita di cui ero al corrente quando quella foto dei miei nonni è apparsa sui social. All’inizio la cosa non mi è sembrata strana: ero troppo assorbita dal contrasto tra ciò che avevo immaginato di quel soggiorno all’Hotel Vittoria e l’aspetto della coppia nella foto. Poi, però, sono arrivati i troll. Quella donna era forse parente di Lea Ypi, l’accademica che alcuni dicono pagata da Soros per portare in Albania l’ideologia dell’inclusione e della giustizia sociale? “È sua nonna”, ha chiarito un utente. “Era una spia fascista”. “No, non una spia fascista, una spia comunista”, ha ribattuto un secondo. “In realtà era entrambe le cose”, ha aggiunto un terzo.

C’è qualcosa nello spirito umano, diceva mia nonna, che resiste a ogni tentativo di offesa, ferita o umiliazione, qualcosa che le altre specie non possiedono, perché incapaci di pensieri scollegati dalla propria esistenza immediata. La chiamiamo dignità. Era attraverso questo concetto che mia nonna sembrava aver trovato un modo per riconciliarsi con gli alti e bassi della sua vita. “Abbiamo perso tutto”, ripeteva spesso, “ma non abbiamo perso la dignità, perché la dignità non ha nulla a che vedere con il denaro, l’onore o i titoli. La dignità è fare la cosa giusta”.

A quel tempo mia nonna poteva ancora parlare per sé. Di fronte a quel post online, invece, ho capito che nella morte era impotente, incapace di difendere il suo nome. Io, almeno, potevo leggere quei commenti e scegliere se rispondere o ignorarli, interagire con il contenuto o segnalarlo. Potevo bloccare gli utenti o voltarmi dall’altra parte. Ovviamente, potevo fare campagna per regole più severe. Mia nonna, invece, era condannata al silenzio. Su quel post stava prendendo forma una caricatura, privata di contesto, memoria, prove, perfino della semplice empatia che di solito riserviamo agli sconosciuti quando li incontriamo di persona. Mi sono sentita in dovere di agire. E mi è venuta in mente una sola strada da percorrere: cercare la verità. Tornare alla fonte. Che, come ho scoperto, era l’“Autorità per l’informazione sui documenti dell’ex servizio di sicurezza dello stato”: in altre parole, l’archivio che conserva i fascicoli sulla sorveglianza delle vittime del comunismo in Albania.

Avevo sempre immaginato che andare in archivio fosse un po’ come visitare un campo di battaglia: un labirinto cupo e angosciante, impregnato di odore di morte e muffa, con pile di documenti sparsi sul pavimento di cemento, come corpi in attesa di sepoltura. Invece mi sono ritrovata in un luogo che sembrava un incrocio tra un negozio di Ikea e la sala d’attesa di un ospedale. La simmetria degli arredi mi ricordava l’austerità delle linee in un quadro di Mondrian. All’ingresso mi hanno accolto degli impiegati in candide tute bianche, simili a camici da chirurgo: ho scoperto che solo loro potevano accedere al seminterrato dove erano conservati i fascicoli originali. A me era concesso solo l’accesso alle copie digitali.

C’è qualcosa nello spirito umano, diceva mia nonna, che le altre specie non possiedono, perché incapaci di pensieri scollegati dalla propria esistenza. La chiamiamo dignità

Quanto al contenuto dei fascicoli, il più delle volte era noioso. Lunghe liste di nomi di strade, seguite dall’orario in cui l’“oggetto” era stato localizzato, come una sorta di Google Maps ante litteram. Per esempio: “La sorveglianza è cominciata alle ore 14.30 del 19.02.1952 in via Bardhyl n. 42. L’oggetto è uscito di casa all’orario indicato e ha percorso via Bardhyl, Qemal Stafa, via delle Barricate, via 28 Novembre, Hamdi Mezezi e Hamdi Toptani”. Più divertenti erano i nomi in codice di chi spiava mia nonna: il Berretto rosso, le Pinze, l’Ingranaggio, il Revolver, il Ramo di salice, la Tempesta, il Vento di marzo, il Tribuno.

Era facile distrarsi. A volte mi sentivo in colpa perché, man mano che leggevo, mi accorgevo di perdere interesse per la nonna e cominciavo a chiedermi se i miei discendenti un giorno frugheranno nell’enorme mole di dati online che mi riguardano. Le autorità comuniste potevano solo sognare uno sviluppo così esteso delle forze di produzione.

Nei fascicoli mia nonna era “l’oggetto”. C’è qualcosa d’insensato nel fatto che un oggetto sia percepito anche come una minaccia. Un oggetto non è mai autonomo; ha sempre bisogno di un soggetto che lo diriga. Mia nonna, invece, sapeva dirigere se stessa. E loro (le spie, il partito, il politburo) temevano la direzione che avrebbe potuto prendere. La controllavano, ma in un certo senso era lei a controllare loro: esistevano perché lei esisteva. C’era una sorta di dialettica servo-padrone. Due figure coscienti di sé e indipendenti, impegnate in una lotta per la vita e per la morte, spinti al limite, che scoprono che la verità di ciascuna risiede nell’altra.

Più mi addentravo nel sistema di sorveglianza delle abitudini di mia nonna, più pensavo al sistema che oggi sorveglia le mie. Paradossalmente, ciò che un tempo era considerato uno degli aspetti più disumanizzanti dei regimi totalitari del novecento, ovvero l’abitudine di spiare i cittadini e raccogliere informazioni sulle loro abitudini quotidiane, nelle società contemporanee è ormai del tutto normale, perfino esaltato. Oggi la raccolta dei dati non è solo uno strumento di sicurezza nazionale, ma è il motore dell’economia.

Naturalmente riconoscere le similitudini tra le vecchie e le nuove forme di sorveglianza non significa considerarle dannose allo stesso modo. Sarebbe un insulto alla sofferenza di mia nonna pretendere di essere una vittima come lei. Per essere sorvegliata io non ho bisogno di appartenere a una categoria sospetta, come accadeva a lei, né di essere percepita come una minaccia per il sistema. Non c’è nessuna dialettica del riconoscimento.

Il sistema capitalista che plasma la mia esistenza non si limita a servirsi della sorveglianza: ne è strutturalmente dipendente. Non s’interessa solo ai comportamenti considerati devianti, ma anche alla normalità. Le nostre vite, non solo quelle dei cittadini sospetti, sono la somma di scelte che all’apparenza riflettono i nostri interessi autentici, ma in realtà si fondano sulla manipolazione delle preferenze più vasta, persistente e pervasiva che l’umanità abbia mai conosciuto. Dal cibo all’aspetto fisico, dalle vacanze alla salute, dalle notizie alle conversazioni con gli amici, tutto viene monitorato, selezionato, classificato, scambiato, commercializzato e poi riconsegnato a noi da forze estranee, fuori del nostro controllo.

Lea Ypi e la nonna a Durrës, in Albania (Dr)

Nel tentativo di mettere insieme i pezzi della vita di mia nonna e gli improbabili parallelismi tra la sorveglianza di allora e quella di oggi, ho cominciato a vedere che tutti questi episodi sparsi ruotavano intorno allo stesso concetto: la dignità. Riconosciuta come il cuore del discorso contemporaneo sui diritti umani, la dignità occupa un posto di rilievo nelle costituzioni degli stati e nei trattati internazionali in virtù della sua forza normativa universale, non riconducibile a nessuna ideologia, religione o identità culturale in particolare. Il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 afferma che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana […] costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. L’articolo 1 della Grundgesetz, la costituzione tedesca, sottolinea: “La dignità umana è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è compito di ogni autorità statale”.

Queste affermazioni nascono dal tragico fallimento dello stato di diritto durante il nazismo e dalla necessità, nel dopoguerra, di riportare la morale al centro della legalità. Dal punto di vista filosofico, però, questo tentativo deve molto alla riflessione del filosofo tedesco Immanuel Kant sulla capacità razionale dell’essere umano di autodeterminarsi. Distinguendo ciò che ha un prezzo, e quindi può essere scambiato, da ciò che possiede un valore intrinseco, incomparabile, Kant sosteneva che gli esseri razionali hanno dignità proprio perché sono in grado di trattarsi reciprocamente non solo come mezzi, ma come fini in sé.

Tornare al nucleo filosofico di questa idea ci aiuta a capire perché la sorveglianza, nelle sue forme passate come in quelle attuali, è prima di tutto un’offesa alla dignità. La sorveglianza consiste nella tendenza a oggettivare l’essere umano riducendolo a semplice mezzo, risorsa, punto dati, invece di riconoscerlo come soggetto capace di agire moralmente. Nel caso di mia nonna, l’offesa proveniva dall’alto, da un’autorità che usava strumenti ingannevoli per minare la sua autonomia. Per spiare la sua vita, il partito si affidava al potere coercitivo dello stato.

Nella sorveglianza contemporanea spesso non c’è coercizione diretta (se si escludono la criminalità informatica e lo spionaggio militare). Lo sguardo è anonimo, impersonale. Gli ostacoli alla capacità morale dell’individuo emergono in modo orizzontale, diffusi tra piattaforme e infrastrutture, senza volti né nomi. La sorveglianza di oggi non si basa su delazioni, ma su tracce digitali; non richiede fedeltà al partito, ma solo la disponibilità a giocare una partita per il profitto di qualcuno.

Eppure il danno è in evoluzione, e può diffondersi. Pensiamo a chi si è visto negare un impiego perché il datore di lavoro ha esaminato la sua attività sui social media. Pensiamo ai migranti respinti da governi sempre più paranoici che acquistano dati privati per limitare l’ingresso di determinati gruppi. Pensiamo all’uso della tecnologia di riconoscimento facciale e delle bodycam nei procedimenti penali contro le manifestazioni della società civile, le proteste per l’ambiente, quelle contro la guerra. Pensiamo all’uso dei droni per colpire i giornalisti che cercano di documentare crimini di guerra. In ognuno di questi casi, i confini tra vecchio e nuovo rivelano una continuità inquietante.

Dopo aver visitato dodici archivi in cinque paesi e sfogliato migliaia di pagine, la mia ricerca sui fatti della vita di mia nonna ha prodotto risultati piuttosto deludenti. In Albania mi hanno detto che i dossier dei servizi segreti sono spesso inaffidabili: le spie inventavano informazioni pur di avere qualcosa da riferire, oppure omettevano dettagli per pietà verso i loro “oggetti”. In Grecia ho scoperto che gran parte delle testimonianze sulla vita ottomana di Salonicco sono scomparse quando le autorità greche hanno tentato di ellenizzare la città. In Italia è stato difficile trovare documenti sulle donne. In Francia piccoli errori burocratici hanno finito per generare problemi più grandi.

Alla fine, l’aspetto più affascinante della ricerca non ha riguardato tanto i fatti della vita di mia nonna, quanto la ricostruzione del mondo che ne ha causato la rovina. La politica degli anni trenta fino all’inizio della seconda guerra mondiale è stata una politica di unmixing of peoples, di separazione tra popoli, per usare la celebre espressione di lord Curzon, una distruzione della convivenza multiculturale non troppo distante dai progetti nazionalisti di oggi.

È stata una politica in cui le istituzioni internazionali, come la Società delle nazioni, sono naufragate nel tentativo di promuovere la cooperazione nel commercio e nella sicurezza. È stata una politica in cui la sinistra ha abbandonato l’internazionalismo (la guerra civile spagnola ne è stata il canto del cigno) e si è legata sempre più allo stato-nazione, con tutti i compromessi che questo ha comportato. Ed è stata una politica in cui il crollo degli imperi ha portato la “questione delle minoranze” nel diritto internazionale: prima come semplice interrogativo, poi come minaccia percepita, quindi come pretesto per la stigmatizzazione di gruppi etnici, religiosi o culturali, fino a sfociare nel fascismo conclamato. In tutto questo, nazionalisti, liberali, conservatori, socialisti, cristiani, musulmani ed ebrei hanno continuato a invocare un’idea che oggi chiameremmo “dignità del popolo”.

Forse il confronto con il passato ha senso non tanto per riportare alla luce una verità perduta, quanto per riconoscere le dinamiche storiche che possano aiutarci a smascherare le menzogne del presente. Come si può parlare di dignità in un’epoca come la nostra, in cui il genocidio, la guerra, lo sfruttamento, il razzismo, il sessismo e l’omofobia sono incoraggiati da un sistema economico che manipola costantemente la vita delle persone? Cos’è la dignità di fronte all’intermediazione algoritmica, al monitoraggio solo in apparenza innocente dei nostri comportamenti online, allo sfruttamento delle tecnologie di sorveglianza in tutte le loro forme, più o meno innocue?

Non è affatto scontato che oggi la dignità possa essere pienamente protetta contro gli abusi dello stato o delle multinazionali, nonostante il suo ruolo centrale nel discorso sui diritti umani. Di certo, non la troviamo nella nostalgia conservatrice per le tradizioni nazionali o nel lamento liberale per lo sgretolamento di norme un tempo considerate progressiste. Forse sopravvive in uno sforzo attivo, personale e politico per restare moralmente vigili, per preservare la propria integrità umana in un mondo che sembra cospirarle contro. Ma forse è proprio questo il significato ultimo della ricerca della verità nei fatti storici: guardare al passato con lo sguardo rivolto al futuro che vogliamo evitare, e a quello che speriamo di costruire. ◆ fas

Lea Ypi è una filosofa e scrittrice albanese. Insegna filosofia politica alla London school of economics. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Confini di classe (Feltrinelli 2025). Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo “How to think about surveillance”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1638 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati