Mia figlia Alice ha quasi due anni e fa abbastanza ridere. Anche se riesce a dire brevi frasi come “Ho bisogno di torta!”, il suo umorismo non è di tipo verbale. Piuttosto ridacchia mentre barcolla indossando scarpe da grande o fa le bolle con l’acqua invece di berla. Le piace mettersi un cappello sugli occhi e poi camminare con le braccia tese come una mummia. Ha anche scoperto l’umorismo dell’esagerazione: di recente, quando una mattina suo fratello si è rifiutato di togliersi il pigiama, si è avvicinata di soppiatto, gli ha afferrato la maglietta, gliel’ha tirata con entrambe le mani e ha riso urlando: “Viaaaaa!”.

L’“Early humor survey”, una ricerca sull’emergere dell’umorismo nei bambini tra il primo e il 47° mese di vita, ha impegnato un team di psicologi per circa dieci anni. Secondo la loro indagine, Alice è sulla strada giusta. I bambini spesso ci mettono un mese o due per sorridere e un altro paio per cominciare a ridere (anche se, come per tutte le cose umane, c’è molta variabilità). Ma una volta sbocciato, l’umorismo decolla rapidamente. Al quarto mese, Alice ha scoperto i giochi “nascondi e mostra” (cucù), poi è passata rapidamente al solletico, alle facce buffe e all’“umorismo corporeo” (per esempio, infilare la testa tra le gambe). Sono seguite “azioni strane con gli oggetti” (usare il cucchiaio al contrario, mettere la tazza sulla testa), e poi gli scherzi (come offrirci un giocattolo e riprenderselo subito con aria maliziosa). Adesso questo ha lasciato il posto a “fare finta di essere qualcos’altro” (un mostro con un cucchiaio in bocca che geme facendo sgocciolare lo yogurt). La ricerca prevede che nei prossimi mesi scoprirà il piacere delle parole senza senso. Ci vorranno ancora un paio d’anni, però, prima che apprezzi i giochi di parole.

Dato che non sono particolarmente divertente, non mi aspettavo di avere figli divertenti. Non sapevo che, in generale, tutti i bambini sono dei comici, e che l’umorismo è tra i primi aspetti della personalità a emergere. Cominciano a scherzare prima ancora di saper usare le parole, e la loro vita può essere piena di umorismo. Mio figlio di sette anni, Peter, spesso comincia e finisce la giornata proponendo una gara: “Vediamo chi riesce a far ridere l’altro per primo”.

Poi arriva l’età adulta. Ma anche la vita dei grandi, pur essendo seria, è piena di risate. È vero che di solito non ridiamo quando siamo da soli e che da adulti passiamo parecchio tempo per conto nostro. Ma lo psicologo Robert Provine ha scoperto che quando siamo in gruppo tendiamo a ridere trenta volte più spesso rispetto a quando siamo soli. Nel 20 per cento dei casi è per scherzi veri e propri. Molto più spesso ridiamo mentre parliamo, per accompagnare frasi innocue come “Guarda, c’è Andrea” o “Anche per me è stato un piacere conoscerla”, e suscitiamo a nostra volta risate.

Altri animali ridono, soprattutto i primati. Secondo lo psicologo evoluzionista Robin Dunbar, la risata è nata come variante sonora del grooming sociale, un comportamento che lega i gruppi di primati. “Il tempo a disposizione per il grooming sociale è limitato”, osserva Dunbar, “e questo impone un limite massimo alla dimensione del gruppo che si può creare”, mentre la comicità è più efficiente.

“La risata è una delle espressioni più ‘animalesche’ dell’umanità”, hanno scritto i ricercatori Elisabetta Palagi, Fausto Caruana e Frans de Waal. “Impazziamo. Ci pieghiamo in due, ci appoggiamo agli altri, diventiamo rossi in viso e ci escono le lacrime. Ce la facciamo letteralmente addosso!”. Eppure “gli altri ominidi non ridono così forte e così spesso”, scrivono i ricercatori, e lo fanno “in una gamma più limitata di circostanze”. Gli psicologi distinguono tra risata involontaria, come quando si reagisce a una barzelletta, e volontaria, che è un modo di comunicare. Usiamo la risata volontaria per indicare “nervosismo, bisogno di compiacere, desiderio di rassicurare chi è ansioso, di mostrare solidarietà, divertimento, attrazione, imbarazzo” e altro ancora.

Possiamo pensare all’umorismo infantile come a una forma di “creatività precoce” o comunque come a un percorso in quella direzione

Il fiume di risate in cui nuotiamo comincia nell’infanzia, contemporaneamente a quello del pensiero. Aristotele pensava che gli esseri umani si distinguessero dagli altri animali perché avevano la ragione. Wittgenstein credeva che fosse il linguaggio a renderci speciali. Sartre sosteneva che la nostra umanità derivasse dall’esercizio della volontà. Ma la rapidità con cui i bambini imparano l’umorismo fa pensare che sia una componente fondamentale della natura umana. Ridiamo, dunque siamo.

Una teoria della mente

Gran parte del lavoro alla base dell’“Early humor survey” è stato condotto da Elena Hoicka, psicologa alla facoltà di scienze della formazione dell’università di Bristol, nel Regno Unito. L’umorismo degli adulti è stato spesso studiato, dice; quello dei bambini molto meno. “È difficile individuarlo nei più piccoli”. I bambini non scherzano a comando, sono timidi e sono più divertenti con i genitori che con gli altri. Dato che stanno ancora imparando a parlare, a volte solo i familiari li capiscono. “Bisogna trasformare tutto in un gioco”, ha spiegato Hoicka, “e anche in quel caso i bambini potrebbero non voler giocare”. Queste difficoltà pratiche sono una delle ragioni per cui l’umorismo infantile è un argomento poco studiato. Inoltre secondo Hoicka c’è la convinzione che sia un tema troppo leggero per essere oggetto di ricerche serie.

“Qual è il suo scopo?”, si è chiesta Hoicka. E ha indicato una ricerca condotta con un altro psicologo, Burcu Soy Telli, dalla quale era emerso che “lo sviluppo dell’umorismo poteva predire lo sviluppo sociocognitivo sei mesi dopo, ma non il contrario”. Scherzare, in altre parole, aiuta i bambini a capire ciò che pensano gli altri. Per capire una battuta, dice Hoicka, “bisogna comprendere le intenzioni”, e sovrapporle a ciò che si sa del mondo. Per trovare divertente il fatto che la mamma si mette una tazza in testa, bisogna prima sapere a cosa serve una tazza e poi chiedersi cosa ha in mente la mamma quando la usa nel modo sbagliato. “Bisogna anche saper leggere le espressioni emotive”, continua Hoicka.

Forse farsi coinvolgere emotivamente aiuta a imparare più in fretta. In una ricerca della psicologa francese Rana Esseily alcuni adulti mostravano a dei bambini di diciotto mesi come usare una pinza per recuperare un giocattolo. Quando lo facevano in modo umoristico – recuperando il giocattolo per poi gettarlo a terra senza motivo e scoppiare a ridere – più bambini hanno imparato a usarla.

Gli psicologi studiano da tempo come i bambini sviluppano una teoria della mente, cioè la comprensione intuitiva di ciò che gli altri sanno, pensano e sentono. Gli esperimenti sono spesso semplici: un bambino piccolo vede una barretta di cioccolato che viene spostata da un cassetto all’altro, e poi gli si chiede dove qualcuno che aveva lasciato la stanza la cercherà al suo ritorno. È possibile che, nella vita reale, gli scherzi insegnino molte cose. Poiché nella stragrande maggioranza dei casi “l’umorismo è emotivamente positivo e sociale”, dice Hoicka, vogliamo continuare a imparare; il contesto comico crea una sorta di parco giochi o palestra mentale, e non vogliamo mai andarcene.

Genitori e figli sorridono di più quando scherzano, e i più piccoli parlano di più. Gli scherzi incoraggiano la trasgressione fantasiosa delle regole (e se questa banana fosse un telefono?) e l’esplorazione di nuovi territori (se tuo figlio sa che i cani fanno “bau” e i gatti “miao”, potresti dirgli che i pesci fanno “blub” e le macchine fanno “brum”). Possiamo pensare all’umorismo infantile come a una forma di “creatività precoce”, o comunque come a un percorso in quella direzione, spiega Hoicka. Un altro dei suoi progetti, l’“Early pretending survey”, monitora come i bambini passano dal “fingere di essere in un altro stato” (per esempio, addormentati), nel loro primo anno di vita, al “mettere in scena situazioni di fantasia, come inventare un uomo che vola nello spazio”, a tre anni. Fingere, dice, è per certi versi un’estensione più seria e regolamentata dell’umorismo. Ora Hoicka sta lavorando anche a un “Early deception survey”. L’inganno “implica ulteriori livelli di comprensione, inclusa la capacità di mantenere le cose segrete”, dice. La vita mentale si autoalimenta, e il piacere sociale dell’umorismo ci aiuta a non uscire dal cerchio.

Il test di Alice

“Quanto può essere divertente ChatGpt?”, si sono chiesti Drew Gorenz e Norbert Schwarz, psicologi dell’università della California del sud, nel 2024. Per trovare una risposta hanno incaricato il chatbot di generare titoli nello stile della rivista satirica The Onion e poi hanno chiesto alle persone di valutarli insieme ad alcuni titoli tratti dal giornale.

Almeno secondo questo parametro, le capacità umoristiche di ChatGpt sono risultate prodigiose. I partecipanti all’esperimento hanno giudicato i titoli generati dalla macchina validi quanto quelli scritti dagli esseri umani. Il titolo più votato: “Un uomo scopre una nuova emozione, ma non riesce ancora a descriverla correttamente”, era stato elaborato da ChatGpt.

La ricerca sull’intelligenza artificiale si serve spesso di test e valori di riferimento. Ma è possibile stabilire un valore di riferimento per l’umorismo? “Lo consideriamo, prima di tutto, una cosa viva”, scriveva il filosofo Henri Bergson nel suo saggio del 1900 Il riso. “Per quanto banale possa essere, lo trattiamo con il rispetto dovuto alla vita”. La risata, sosteneva, è una forma d’intelligenza che “deve sempre rimanere in contatto con altre intelligenze. (…) Il nostro riso è sempre il riso di un gruppo. (…) Per quanto spontaneo possa sembrare, il riso implica sempre una sorta di massoneria, o perfino di complicità, con altre persone che ridono, reali o immaginarie”.

Il famoso test di Turing, ideato dal pioniere dell’informatica Alan Turing nel 1950, suggeriva che una macchina può essere considerata intelligente se riesce a convincere delle persone di essere umana. Nel “gioco dell’imitazione” di Turing – il nome originale del test – un giudice valutava l’intelligenza di una macchina sulla base di conversazioni scritte. Ormai è chiaro che i chatbot di oggi possono vincere facilmente questa sfida, ed è lecito mettere in discussione il collegamento tra umanità e intelligenza implicito nel test di Turing. Gli esseri umani possono essere intelligenti sulla carta, certo, ma sono qualcosa di più che semplicemente intelligenti.

È possibile ideare un test basato sull’umorismo? Potremmo chiamarlo il test di Alice. In questo test, un’ia deve scherzare con delle persone. Quando ride alle nostre battute, la sua risata deve sembrare autentica ed essere contagiosa. Deve farti ridere non solo con battute scritte, ma con sciocchezze improvvisate e scherzi, e con il suo corpo, qualunque esso sia. Deve anche trasmettere un senso di socialità. Deve farci sorridere e stare bene. E deve essere spontanea e autonoma. Non dovremmo essere noi a darle le istruzioni per una battuta, dovrebbe vedere le opportunità di umorismo e decidere di coglierle.

Alice potrebbe superare questo test, e non è una rete neurale alimentata a energia nucleare e addestrata esaustivamente sulla totalità della conoscenza umana. Si nutre di sonno, pesche e cartoni animati. Non sa fare le addizioni e a volte cade dalla sedia, ma sa ridere a una battuta e inventarne una, e creare una piccola cerchia di partecipazione intorno a sé. Il test di Alice non misurerebbe necessariamente l’intelligenza, ma potrebbe avvicinarsi a misurare l’umanità.

Forse è a questo che serve l’umorismo infantile: permette alle persone di trovare la propria strada verso la loro umanità e nella comunità umana. Ecco perché cominciamo a essere divertenti quasi subito dopo la nascita. ◆ bt

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Questo articolo è uscito sul numero 1643 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati