Come si capisce quando una guerra è finita? È quando lacrime di gioia rigano i volti di migliaia di persone mentre guardano le immagini dei venti ostaggi che tornano dai tunnel di Hamas? O forse è dopo l’ultimo funerale degli ostaggi morti? Invece, come promette il premier israeliano Benjamin Netanyahu, la guerra non è finita?

Il 13 ottobre la piazza degli ostaggi, a Tel Aviv, ha vissuto momenti rari di pura felicità. La folla si è radunata già durante la notte. “Abbiamo dormito qui, non potevo perdermelo”, dice la diciottenne Rona Dagan. Alle 6.29, molti si sono guardati l’un l’altro. Esattamente a quell’ora, due anni prima, ognuno di loro stava vivendo un incubo altrove. Oggi sono insieme, testimoni della fine. All’interno di una struttura eretta nella piazza, alcune persone pregano e alzano cartelli con il nome di un ostaggio. Altri sventolano bandiere israeliane. Dagan tiene in mano una foto del soldato Nimrod Cohen, che come lei è di Rehovot. “Mi sento legata a lui”, spiega.

Applausi e lacrime

Non sono nemmeno le sette del mattino e la piazza è gremita. “Sono venuto a tante manifestazioni tristi qui, finalmente ce n’è una felice”, dice Raz Shmueli. Per un giorno, il luogo che è diventato il simbolo della lotta per il ritorno degli ostaggi è diventato un faro di speranza. Applausi e urla di gioia esplodono ogni pochi minuti, mentre altre immagini degli ostaggi liberati appaiono sui maxischermi. Molti hanno fatto degli ostaggi e della protesta per il loro ritorno la causa della loro vita. Questo giorno quindi è la realizzazione di un sogno e il culmine di una lotta.

Qua e là, tra la folla spuntano kippah lavorate a maglia. Oshrit Katzin, 58 anni, tiene in mano un libro di preghiere. “È tutto scritto qui, tutto assume un significato. Non sono momenti facili. Penso alle persone che non ci sono più, grazie alle quali tutto questo sta succedendo. Sento che Dio accompagna questo processo. Qui in piazza mi sento a casa, con la mia gente. Guardatevi intorno, che grande cuore c’è qui, diviso in tante parti”.

Un luogo che rimane quasi deserto è lo stand della sede delle famiglie degli ostaggi, che vende gadget. Le magliette che solo pochi giorni fa erano esaurite sono ora diventate oggetti da collezione, come le spille gialle. “Oggi la gente compra speranza, ed è gratis”, dice Dalit Amir, una delle volontarie. “Sono qui dal dicembre 2023 e ho promesso a me stessa che sarei rimasta fino al ritorno dell’ultimo ostaggio”. Nel frattempo, lentamente ma inesorabilmente, gli ostaggi tornano e l’entusiasmo contagia tutti mentre sui maxischermi scorrono le loro immagini, prima con i militanti di Hamas alle spalle e poi con i portavoce dell’esercito israeliano. I nomi e le immagini statiche che i manifestanti hanno tenuto per due anni diventano figure viventi: sane e sorridenti, abbracciate dalle famiglie.

A un certo punto, si diffonde tra la folla la voce che l’aereo del presidente degli Stati Uniti sorvolerà la piazza come gesto di ringraziamento per la mobilitazione. Per diversi minuti, decine di migliaia di persone guardano verso il cielo, come se aspettassero il messia. Ma l’aereo vola pochi chilometri più a sud e la folla rimane delusa. Quando l’immagine di Netanyahu appare sugli schermi, alcuni fischiano. “Amici, oggi è una giornata positiva”, dice una rappresentante del Forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi all’altoparlante. “Siamo persone perbene, non di destra o di sinistra”, aggiunge.

Sembra quindi che la guerra sia finita in lacrime di gioia, mescolate ai ricordi della violenza e alle perdite. Ma molti dei presenti promettono di continuare a venire in piazza. “Rimarremo qui fino al ritorno dell’ultimo ostaggio”, dicono. Gideon Rosenberg, uno degli organizzatori delle manifestazioni settimanali, conferma: “Continueremo fino all’ultimo. Lo dobbiamo alle vittime, alle famiglie e a noi stessi”. Michal Fuchs promette di tornare in piazza non solo per gli ostaggi: “C’è tanto da fare in questo paese: prendersi cura delle famiglie, dei feriti, e sostituire questo governo. Mi era chiaro prima della guerra, ora lo è di più: la guerra sarà anche finita, ma c’è ancora una battaglia da combattere per il paese. Domani saremo di nuovo in questa piazza”. ◆ dl

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Questo articolo è uscito sul numero 1636 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati