Nell’autunno del 1977, Ralf Hütter e Florian Schneider del gruppo tedesco Kraftwerk entrarono in un nightclub di New York e sentirono suonare una versione prolungata di un brano tratto dal loro nuovo album, Trans-Europe express. Sentendo _Metal on metal _rimbombare nell’aria densa di lustrini, Hütter ebbe un moto di soddisfazione; poi, però, rimase perplesso perché si accorse che era più lungo dell’originale. “Pensai: ‘Che sta succedendo? Questo pezzo dura meno di tre minuti’. Così andai a chiedere al dj: aveva due copie del disco e le stava mixando”.
Stavano succedendo molte cose in quel momento: era in corso un improbabile intervento di lifting facciale in versione disco, in cui un garbato esperimento europeo rinasceva sotto forma di paradosso, un doppelgänger _musicale statunitense, ma completamente diverso. Dal pioniere del rap newyorchese Afrika Bambaataa (la sua _Planet rock _del 1982 avrebbe utilizzato il beat dalla canzone che dà il titolo a _Trans-Europe express) alle successive ondate dei “sognatori elettronici” di Detroit come Juan Atkins, Derrick May, Drexciya e Underground Resistance, i beat sintetici dei Kraftwerk avrebbero aperto mondi sonori paralleli a una generazione di giovani americani neri intrappolati in vite senza via d’uscita in fatiscenti case popolari. Dove i Kraftwerk richiamavano un paesaggio europeo rigoglioso, ordinato, quasi classico, i giovani e sfacciati americani avrebbero dato vita a fantastici spazi da sogno con i loro strumentali carichi di beat e il loro sguardo da zombi. La techno era anche un genere profondamente politico nella sua anonima opacità. Questa torsione cupa e urbana dell’estetica dei (bianchissimi) Kraftwerk era una sorta di selvatico florilegio ciberpunk, capace di remixare una cultura morente e concepire al suo posto una serie di mondi più febbrili e onirici.
Dai Kraftwerk sarebbe nato un sound nuovo: una Motown postindustriale, fatta per e da robot da catena di montaggio, musica soul priva delle sue qualità tradizionali
È su questo passaggio di testimone, a prescindere dai meriti della loro musica, che si fonda ancora oggi l’inattaccabile reputazione dei Kraftwerk. I giovani statunitensi che ascoltavano i Kraftwerk non s’identificavano con gli agi danarosi e le camicie increspate della disco tradizionale né vedevano prospettive di carriera nel soul old school _che si suonava nei locali notturni. Nell’era di _Guerre stellari _e della dipendenza dai videogiochi doveva esserci un’altra strada e i Kraftwerk indicavano un’uscita dal labirinto. Da tutto questo sarebbe nato un sound completamente nuovo: una sorta di Motown postindustriale, fatta per e da robot da catena di montaggio, musica soul che, alle orecchie di molti, era chiaramente priva delle qualità tradizionali del soul: niente melismi e virtuosismi, nessun messaggio esplicito d’amore, protesta o dolore, niente parti vocali o quasi. Il suono era allo stesso tempo lussureggiante ed esile, con i nomi delle band e delle etichette a segnalare l’origine stessa del genere. I Drexciya citavano esplicitamente _Autobahn con la loro Aquabahn, che trasformava il racconto di un gruppo di europei bianchi privilegiati in gita sull’autostrada in una fantasia da ghetto su una vita priva di ormeggi e controlli, vissuta oltre ogni immaginabile orizzonte tradizionalista.
Autobahn (Autostrada) comincia con il tonfo sordo e rassicurante di una portiera che si chiude, poi di un motore che si avvia (si è scoperto poi che questi suoni quotidiani – o alltagsmusik, come preferivano dire i Kraftwerk –erano un primo esempio di campionamenti; i Kraftwerk li avevano presi da un album di musica per sonorizzazioni di quelli che usavano le società di produzione cinematografica). Una voce modulata dal vocoder indica la strada: la natura filtrata della tecnologia, una sorta di versione mitteleuropea di I get around _o _Little deuce coupe _dei Beach Boys, solo meno allegra, sfacciata, compressa. Mentre la maggior parte delle canzoni pop-rock segue il modello dei fuochi d’artificio, _Autobahn _(1974) procede, per così dire, lungo la corsia opposta: monotona, ruminante, interminabile (la traccia originale dura 23 minuti e occupa tutto il primo lato dell’album; una versione abbreviata, di tre minuti e mezzo, arrivò all’undicesimo posto in classifica nel Regno Unito). “È fondamentalmente la descrizione musicale di un viaggio in auto da Düsseldorf ad Amburgo”, ha detto Wolfgang Flur, ex percussionista dei Kraftwerk. “I suoni meccanici rappresentano la valle industriale della Ruhr, i nastri trasportatori delle città minerarie di Bottrop e Castrop-Rauxel. Poi c’è il tratto che attraversa la campagna del Münsterland. In breve, Volkswagen e Daimler, Thyssen e Krupp, splendidi paesaggi e, in mezzo, la lunga e tortuosa _autobahn, come in un racconto tardo classico tedesco”.
Il vocalist pronuncia brevi spezzoni di frasi al posto di un testo tradizionale: Autobahn è un brano che descrive tanto la gioia infantile di ripetere una frase ipnotica all’infinito quanto il piacere di viaggiare sulle autostrade tedesche.
Scorrendo i commenti su YouTube si leggono le reazioni sbalordite dei giovani fan di fronte alla freschezza di questo inno synth: non riescono a credere che sia stato registrato nel 1974, un anno che per loro significa soprattutto rock da stadio, pantaloni stravaganti e ricci a cavatappi. Eppure, se si ascolta Autobahn pensando all’Europa di allora, lacerata dalle tensioni, l’effetto può essere inquietante. Ecco spiegato perché fin dall’inizio colpì tante persone: è il racconto sonoro di due giovani tedeschi che non vedono l’ora di lasciarsi alle spalle l’insularità sospetta dei loro genitori e nonni; una trasposizione inquietante di un’attività quotidiana; il suono ammaliatore di una prossimità remota.
Sempre su YouTube c’è un magnifico video dei Kraftwerk che suonano Autobahn a Tomorrow’s world _sulla Bbc1 nel 1975. Se all’epoca il loro vispo robo-bop poteva sembrare sconcertante e d’avanguardia, oggi suona piacevolmente maldestro: nel filmato si vedono _drum pad _fatti in casa, coperti di carta stagnola come vecchi fornelli da campeggio e suonati con i ferri da calza della nonna. Rispetto alla cultura Apple di oggi, c’è l’atmosfera goffa e amatoriale di un esperimento scientifico scolastico. “I Kraftwerk hanno un nome per tutto questo”, dice il presentatore. “Machine music_. I suoni vengono creati nel loro laboratorio a Düsseldorf”. Ci sono già tutti gli elementi del nascente mito dei Kraftwerk: l’inespressività della performance dal vivo, l’inappuntabile abbigliamento antibohémien, la tensione elettrica della musica. Quella dei Kraftwerk è una visione futuristica da capanno degli attrezzi, una fantascienza di buona sartoria viennese, un’elettronica polimorfa dalle molte linee rette. “Il prossimo anno i Kraftwerk sperano di eliminare completamente le tastiere e di cucirsi giacche dai risvolti elettronici”.
Sulla copertina della versione britannica di Autobahn _c’è un’icona squadrata in bianco e azzurro tratta dalla segnaletica autostradale tedesca. La copertina originale è più ambigua: è una scena di viaggio con una Mercedes Benz nera che si dirige verso l’osservatore mentre una Volkswagen bianca si allontana tra rigogliose colline verdi illuminate dal sole che sorge (o tramonta?). Nella foto sul retrocopertina, i Kraftwerk sembrano un qualsiasi gruppo rock degli anni settanta che va in macchina a un concerto in un pub il sabato sera, tra lazzi e risate; un anno dopo, a _Tomorrow’s world _si presentarono come un collettivo ben vestito e studiatamente neutro. Il suono non era l’unica cosa che avevano deciso di ridurre all’osso: l’antica familiarità con le belle arti (l’artista tedesco Joseph Beuys era un assiduo frequentatore della villa di famiglia di Florian Schneider) gli aveva insegnato a curare ogni aspetto dell’autorappresentazione. In contrasto con il barocco fiorito della moda rock dell’epoca, i Kraftwerk erano eleganti come Jack Nicholson in _Chinatown. Durante l’esibizione a Tomorrow’s world il gruppo sembrava un nuovo marchio che si fa pubblicità, con tanto di targhette personalizzate al neon: Ralf | Karl | Wolfgang | Florian. Sorprende che non abbiano pensato di usare lo slogan Vorsprung durch technik dell’Audi: “Il progresso attraverso la tecnologia” è un concetto Kraftwerk al cento per cento.
Da come Uwe Schütte racconta questo passaggio cruciale nel suo _Kraftwerk: future music from Germany _non si capisce bene come o perché Hütter e Schneider abbiano deciso di prendere questa direzione paneuropea. Nel libro c’è un sacco di fuffa sul “nuovo inizio” e la ricerca di una nuova identità, ma poco o nulla sui momenti “eureka!” di una band alle prese con una strumentazione elettronica nuova di zecca. Anche per un Kraftwerk-scettico come me, il modo in cui il quartetto si è reinventato a metà degli anni settanta è impressionante, e mi piacerebbe saperne di più su come sono arrivati al loro nuovo sound spogliato di tutti gli orpelli. È stata la musica al sintetizzatore a suggerire temi paneuropei? O sono partiti da una grande visione europea e hanno sviluppato la colonna sonora di conseguenza? Per essere onesti, i Kraftwerk hanno sempre avuto la tendenza a non dire nulla di specifico a riguardo (ancora oggi, il loro sito ufficiale è uno spazio vuoto, deliberatamente rudimentale e laconico), quindi Schütte è costretto a fare affidamento sui commentatori precedenti.
Per chi come me capisce l’importanza storica dei Kraftwerk ma trova la loro musica solo vagamente divertente, l’idea centrale di Schütte – cioè che ogni particella di suono, immagine e concetto dei Kraftwerk sia un mattone di una imponente gesamtkunstwerk, o “opera totale” – sembra un po’ una forzatura. I Kraftwerk mi piacciono. Se dovessi scegliere un loro brano sceglierei Neon lights _da _The man-machine _(1978); se invece dovessi scegliere un album, sceglierei _Trans-Europe express _(1977). Quella di Hütter e Schneider è musica di sottofondo intelligente, rilassante, sublime e graziosa, perfetta per fare da tappezzeria in una casa di cura alpina, tra pareti bianche immacolate, insalate di tarassaco, acqua minerale e silenziose partite a scacchi: _luxe e calme in abbondanza, ma poca volupté. Non capisco, quindi, l’adorazione ossessiva per i Kraftwerk che sembra crescere di anno in anno. L’entusiasmo irrefrenabile di alcuni miei conoscenti per i concerti del quartetto alla Tate modern nel febbraio 2013 mi ha lasciato perplesso. Quando li ho visti dal vivo negli anni ottanta vestiti da robot, per circa dieci minuti ho pensato che fosse una trovata divertente; poi, per il resto del concerto, sono stato a girarmi i pollici mentre loro giravano le manopole sul palco. A distanza di trent’anni, le esibizioni dal vivo dei Kraftwerk restano praticamente uguali, con l’unica differenza che la tecnologia è migliorata. Ormai però l’effetto “shock del futuro” è svanito, perché la tecnologia è la stessa che usa il pubblico a casa (a questo proposito c’è stata una piccola polemica dopo un’esibizione del 2015, quando uno spettatore ha sorpreso uno dei quattro Kraftwerk mentre controllava la posta elettronica nel bel mezzo del concerto).
In più di un’occasione, Schütte mette a confronto l’orizzonte culturale dei Kraftwerk con quello, sterminato, dei Beatles: “Si è a lungo discusso, tra i giornalisti e i fan, se siano stati più influenti i Kraftwerk o i Beatles. Hütter/Schneider un giorno saranno considerati alla stessa stregua di Lennon/McCartney”. Ah sì? Hanno la stessa strabiliante vena compositiva? O lo stesso talento individuale? La loro musica ha contribuito a promuovere una rivoluzione dei costumi sessuali, della politica e del consumo di droghe? Schütte è convinto che l’importanza dei Kraftwerk vada addirittura oltre. “Per esempio, la techno sarebbe emersa dalle aree urbane di Detroit senza di loro?”. Il collegamento è innegabile, ma da qui a dire che la techno non sarebbe esistita senza i Kraftwerk ce ne passa. In un modo o nell’altro da Detroit (o da qualche altro luogo simile) sarebbe venuta fuori la techno (o qualcosa di simile). Dire che i Kraftwerk sono stati gli unici iniziatori di questa rivoluzione è un’esagerazione, quasi ai limiti dell’imperialismo culturale (i primi cinque utilizzatori di tecnologia synth/beat che mi vengono in mente – Timmy Thomas, Shuggie Otis, Sly Stone, Stevie Wonder, Lee Perry – sono molto meno pallidi dei Kraftwerk).
Ma Schütte non si ferma qui. A quanto pare, secondo lui, ogni singola molecola dell’electropop degli anni ottanta deriva dai Kraftwerk, “il modello di riferimento di tutte le band e i musicisti successivi che hanno lavorato nel campo della musica elettronica”. Giudizi di valore come questo mi fanno un po’ sussultare. A un certo punto Schütte dice addirittura che i Kraftwerk sono “ormai usciti dal contesto della semplice musica pop”. Semplice musica pop? Molti dei miei brani preferiti degli anni settanta e ottanta pendono dal lato più trash del binomio pop/art. Capisco che i Kraftwerk siano “storicamente importanti”, ma se invece preferissi gli Sparks o i Suicide o i Pet Shop Boys o gli Human League o The idiot _di Iggy Pop? I Kraftwerk hanno inciso un brano intitolato _Numbers, ma a me piace di più l’omonimo singolo dei Soft Cell, uno dei grandi 45 giri dimenticati degli anni ottanta, che parla di una forma molto diversa (e assai meno igienica) di contabilità. Per non parlare dell’altro grande classico dance tedesco pre-techno, _I feel love _di Donna Summer (e Giorgio Moroder e Pete Bellotte e Robby Wedel e un sintetizzatore Moog Modular 3P), che ancora oggi mi toglie il fiato più di quanto, onestamente, non abbiano mai fatto i Kraftwerk.
Ralf Hütter e Florian Schneider sono nati rispettivamente nel 1946 e nel 1947 nella regione devotamente cattolica della Ruhr (Schneider è morto il 21 aprile 2020). Provenivano entrambi da un “ambiente ricco e medio-alto borghese”, frutto del miracolo economico tedesco del dopoguerra: il padre di Hütter era un uomo d’affari di Krefeld, vicino a Düsseldorf, che commerciava in tessuti; il padre di Schneider, invece, era un famoso architetto, responsabile, tra le altre cose, dell’aeroporto modernista di Colonia-Bonn e, nelle parole di Schütte, del “grattacielo purista in acciaio e vetro” della sede del gruppo industriale Mannesmann. Presumibilmente le commesse erano tante, perché la vicina Colonia, come tante altre città europee del dopoguerra, era “un campo di macerie”.
Stando a quanto hanno raccontato Hütter e Schneider sembra che il classico suono dei Kraftwerk sia nato da un’unica magnifica emanazione, una visione perfettamente realizzata di eros e thanatos, tecnologia e pastorale, deriva e controllo. Ma in realtà questa “musica nuova, sinceramente autonoma” dovette essere “costruita da zero”, al pari del loro studio Kling Klang, che i Kraftwerk riempirono di vocoder, drum pad e sintetizzatori appena entrati in commercio come il Minimoog e l’Ems Synthi Aks, grande come una valigia. I Kraftwerk dei primi tre album (pubblicati tra il 1970 e il 1973 e mai ufficialmente ristampati) erano una proposta molto più disordinata. C’era un organo particolarmente sinistro. C’erano lunghissime “jam spaziali”. C’erano prolungati assoli di flauto. Sarebbe facile prendersi gioco di queste sbavature da apprendisti pensando alle manie di controllo del duo nei dischi successivi, ma i Kraftwerk non furono i soli ad avventurarsi in questo tipo di bricolage musicale. In quello stesso tempo e luogo c’erano gruppi come Can, Cluster, Faust, Neu! e Popol Vuh, le cui visioni musicali erano talmente divergenti da far venire il mal di testa: è difficile trovare un terreno unico, per esempio, tra la comune sudaticcia e sfrenata dei Faust e il laboratorio spartano e asettico dei Kraftwerk. Perché la Germania degli anni settanta fu terreno fertile per tutto questo gioco profetico, fatto di paesaggi sonori delicati, ritmi elettronici, colonne sonore di film sperimentali e utilizzo dello studio come uno strumento in sé? Per un momento, fu come se la terribile tecnologia neoterica dello sforzo bellico tedesco fosse stata riconvertita per creare una vasta radura apollinea.
Quando mi trasferii a Londra nell’estate del 1978, nell’aria non c’era solo la scintillante costellazione del krautrock, ma una straordinaria fioritura creativa di film, libri, musica e arte che arrivava dalla Germania. Ricordo la prima volta che vidi un’enorme tela di Anselm Kiefer alla vecchia Tate, e i miei primi film di Fassbinder, Herzog e Wenders (ultimamente ho rivisto La terza generazione _di Fassbinder, del 1979, e il montaggio stridente d’immagini e suoni è ancora straordinariamente audace). Ricordo vagamente un evento durato tutta la notte che mescolava nuovi gruppi post punk all’avanguardia con i film di Herzog (promemoria per il me di allora: non è una buona idea prendere amfetamine prima di andare a vedere registi ultralenti come Herzog e Tarkovskij). Anche artisti come Fassbinder e Kiefer aspiravano alla _gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale, ma nel loro caso era qualcosa di molto più complicato, che non aveva paura dell’epopea, dell’autoflagellazione, del proibito. Kiefer si era fotografato mentre faceva il saluto nazista ed evocava oscuri miti dormienti nella psiche tedesca; Fassbinder, nel suo frenetico contributo in stile _cinema verité _al film collettivo di protesta _Germania in autunno _(1978) sniffa droghe, si fa prendere dalla paranoia, si spoglia completamente, tiranneggia la sua compagna, mette in ridicolo l’ingenuità politica di sua madre. Fassbinder era vigliaccamente attratto dalla cultura popolare, ma con una certa consapevolezza: “Voglio farmi immortalare in tutta la mia bruttezza sulla copertina di Time”, proclamò, non molto prima di morire a 37 anni per overdose di sonniferi e cocaina. Si potrebbe pensare che Fassbinder fosse un grande fan dei Can o dei Faust, ma è il freddo baluginio bianco dei Kraftwerk che spunta di tanto in tanto nelle sue colonne sonore, non per significare un nuovo spirito nazionale aperto verso l’esterno, ma come il segno di un edonismo anestetizzato, di una passività senza affetti, di una psiche sconfitta sull’orlo dell’estinzione volontaria.
Nell’ottobre del 1963, gli artisti Konrad Lueg e Gerhard Richter allestirono una mostra intitolata Vivere con il pop: una dimostrazione di realismo capitalista, nel negozio di mobili Berges a Düsseldorf. In una stanza impregnata di deodorante per ambienti, piena di riviste di arredamento e tomi di Winston Churchill, le casse diffondevano musica di sottofondo mentre i due artisti sedevano su comode poltrone; uno leggeva un thriller a buon mercato, l’altro guardava al telegiornale un servizio sulle dimissioni del cancelliere Konrad Adenauer. L’intento di Richter, Sigmar Polke e altri era distillare una versione casalinga della pop art, segnata dall’ossessione per il nuovo panorama postbellico fatto di beni desiderabili, pubblicità scaltre e glamour statunitense d’importazione. Gli oggetti quotidiani erano elevati allo status di feticci, in una sorta di realismo socialista in versione miracolo capitalista. L’arte era allo stesso tempo lucida e piatta: un travestimento della mercificazione del desiderio.
Hütter e Schneider frequentavano i margini di questa scena e nelle loro prime interviste citavano spesso gli artisti contemporanei. I dischi della svolta dei Kraftwerk – Autobahn (1974), _Radio-activity _(1975) e _Trans-Europe express _(1977) – offrono una specie di vellutata rivisitazione in chiave musicale del realismo gelido e ambiguo di Richter. I Kraftwerk agganciano l’ultima ondata di un modernismo in via di esaurimento, mentre il termine “postmodernismo” cominciava a comparire sui mezzi d’informazione ufficiali. Pur utilizzando nuovi strumenti elettronici, la loro musica d’atmosfera richiama la sublime ricchezza di un’epoca precedente, trasferita in paesaggi industriali illuminati dalle luci notturne. Una versione pastorale dell’urbanesimo, o un’urbanizzazione della pastorale. Comodi viaggi in automobile e in treno, il paesaggio illuminato dai raggi morenti del romanticismo modernista, secondo la lezione del “dandismo” di Baudelaire: un sole al tramonto, straordinariamente suggestivo, ma privo di calore o tepore e “pieno di malinconia”. I ritratti di gruppo stilizzati sulle copertine di _Trans-Europe express _o _The man-machine _(1978) sono citazioni consapevoli di una studiata dandificazione del recente passato europeo. “Gli anni settanta sono l’interazione tra una borghesia aggrappata a una modernità che invecchia e la controcultura”, scrive Philip Mann in _The dandy at dusk: taste and melancholy in the 20th century _(Il dandy al crepuscolo: gusto e malinconia nel ventesimo secolo, 2017).
Mentre i Kraftwerk sviluppano il loro nuovo caratteristico sound, mostrano anche un certo talento nello sfornare citazioni che mandano in iperventilazione i giovani critici musicali emergenti. A volte si propongono come artisti folk, altre volte come performance artists _con radici nella musica, altre ancora come _musikarbeiter, _“operai della musica industriale”. Come molti artisti post-warholiani, innamorati della sua disinvolta ambiguità, si divertono soprattutto a parlare del loro prodotto usando un lessico vaporoso, a metà tra il gergo artistico e la pubblicità modaiola. Ma c’è anche un che d’imbalsamato, che accomuna artisti come Warhol, Helmut Newton, Gilbert & George: non c’è un capello fuori posto in quella che Mann descrive come una certa “‘sterilità romantica’ che caratterizza il meglio del modernismo tedesco del dopoguerra”. A volte i Kraftwerk presentano la loro musica come etnicamente tedesca (all’inizio la chiamavano _heimatklange, “suoni di casa”), a volte come specificamente regionale (industrielle volksmusik: “Ci piace pensarla come musica etnica dell’area industriale tedesca”), a volte come un modo per creare “un’identità centroeuropea tutta nostra”. Ma in cosa consisterebbe esattamente questa rassicurante essenza eurotedesca? Schütte cita con approvazione le parole di un altro accademico tedesco a proposito dell’irresistibile orecchiabilità di Autobahn: “Ha creato una colonna sonora potenzialmente in grado di fare le veci del disgraziato inno nazionale della Repubblica Federale Tedesca, rappresentando in modo convincente l’intento industriale modernizzatore, razionalizzatore e progressista di una nazione emergente ma frammentata”. Ho letto la frase decine di volte, e ancora non mi è chiaro se questo “intento industriale modernizzatore, razionalizzatore e progressista” dovrebbe essere una cosa buona o no.
_Gesamtkunstwerk _a parte, nel libro di Schütte la cosa che più si avvicina a una definizione concettuale della musica dei Kraftwerk è “retrofuturismo”, ovvero una forma di nostalgia per un “futuro che non è mai stato realizzato, o per dirla in altro modo, un futuro di cui le promesse non mantenute incombono sul presente”. Tutto questo sembra un po’ _rétro _di per sé. La visione futurista dei Kraftwerk oggi rischia di sembrare piuttosto timida: i robot da cui a volte si fanno sostituire sul palco sono palpabilmente predigitali. Uno dei problemi della carriera dei Kraftwerk dopo _Computer world _(1981) è che Hütter e Schneider hanno speso fiumi di denaro in nuove tecnologie che sono subito diventate vecchie. Si sono adoperati molto per riarrangiare i vecchi classici, ma le nuove versioni suonano un po’ banali e impacciate, come dei papà trendy che cercano di stare al passo con i figli molto più giovani e alla moda. Se l’indiscutibile apice musicale dei Kraftwerk – i quattro album da _Autobahn _(1974) a _Computer world _(1981) – resiste, uno dei motivi è che l’unicità di quei suoni non è particolarmente invecchiata. Per qualche motivo, più i Kraftwerk si sono aggiornati, più sono diventati irrilevanti (vedi anche alla voce “Brian Eno”).
Da quello che scrive Schütte sull’“opera totale” dei Kraftwerk, i Kraftwerk robot dovrebbero essere praticamente indistinguibili da quelli veri, invece hanno un’aria vagamente pacchiana e amatoriale. Come osserva David Stubbs in _Future days: krautrock and the building of modern Germany _(Giorni futuri: il krautrock e la costruzione della Germania moderna, 2018), si ha “l’impressione che appartengano a un’era aerospaziale passata, come reduci di un progetto spaziale abbandonato’’. Il fatto che i Kraftwerk abbiano prodotto così poco dalla metà degli anni ottanta, aggiunge, “non fa che accentuare questa sensazione”.
E qui arriviamo a un problema che Schütte affronta a viso aperto, anche se con un lessico piuttosto altisonante: “Il progresso lineare ha lasciato spazio a un modus operandi incentrato sull’elaborazione, l’espansione e l’evoluzione retrospettiva”. Ma se i Kraftwerk non sono stati semplicemente baciati dalla fortuna o non sono dei geni pigri, allora come si sposa la teoria di un’opera totale onnicomprensiva con il fatto che il loro ultimo album veramente essenziale è stato Computer world? I Kraftwerk hanno passato quasi quarant’anni a far crescere il loro marchio e a coltivare il loro orticello. Da quando in qua una _gesamtkunstwerk _si costruisce con ritocchi cosmetici dei classici del passato e lunghe escursioni in fuoristrada? (Negli anni ottanta, Hütter e Schneider spesero la bellezza di un milione di sterline per installare il nuovo sistema di campionamento digitale Synclavier II, poi scoprirono che era difficilissimo da usare, così partirono subito per una lunga vacanza in bicicletta lasciando l’incombenza a un ingegnere del suono).
Lo scopo dei Kraftwerk, ha detto una volta Hütter, era “mettere insieme uomo e macchina in una partnership amichevole”. Schütte: “L’idea di collegare, o addirittura ibridare, l’umano e il tecnologico è il principio artistico centrale della loro opera da Autobahn _in poi”. Ma cosa c’è effettivamente dietro questo desiderio un po’ serioso di essere percepiti come robot? Rappresentarsi come inespressivi, impersonali, meri interruttori umani? Avrei gradito un approccio più critico rispetto a questa idea di diventare tutt’uno con la macchina. La visione dei Kraftwerk della soggettività umana come branca della tecnologia non sembra una forma edulcorata di feticismo? Schütte cita più volte l’autodefinizione preferita dei Kraftwerk come “operai della musica” e la loro visione dell’uomo-macchina come “metà essere vivente e metà cosa”, ma è possibile che non ci sia spazio da nessuna parte per un po’ di buona vecchia alienazione? L’antico sogno della macchina che ci libererà dal lavoro quotidiano non ha prodotto un tempo libero infinito per tutti, ma un nuovo proletariato globale, irrimediabilmente nomade, senza reti di protezione né rappresentanza, fortunato ad avere un contratto a zero ore o una mensa dei poveri dove mettersi in fila. Nel sogno del movimento senza restrizioni dei Kraftwerk ci sono solo _flâneur transeuropei, mai rifugiati o “lavoratori ospiti”.
Schütte è talmente preso dal suo delirio sulla gesamtkunstwerk _che non riesce a cogliere i dettagli più piccoli e umani che fanno brillare i Kraftwerk. Gran parte della musica rock si basa su un modello derivato dal blues; più la voce è sgranata, piena e “autentica”, meglio è. Ascoltando _Neon lights _da _The man-machine, il soffio della voce di Hütter è un gemito imperfetto, appena percettibile, che descrive la città come un’amante assonnata avvolta da un alone luminoso. Ma _Future music from Germany _avrebbe potuto fare di più anche per contestualizzare i Kraftwerk. Per esempio, non c’è il minimo accenno a tutti gli altri musicisti che negli anni settanta facevano prodigi negli studi di registrazione: sembra che non ci sia vita fuori dal Kling Klang. Non una parola su storie parallele, relazioni, entusiasmi, la polvere e i detriti della vita. Alla fine del libro, non sono riuscito a farmi un’idea più chiara su Hütter e Schneider come singoli individui rispetto a quando l’avevo cominciato: rimangono indistinguibili, due lottatori che non sudano, due menti che lavorano come una sola. Quello di Schütte è un libro sullo shock del futuro che ruota attorno a un concetto ormai abbastanza antiquato. I Kraftwerk sono un’opera d’arte totale? E allora? Lo stesso si può dire oggi di Lady Gaga, Beyoncé, Lana Del Rey e tanti altri.
I Kraftwerk cantano le lodi di un “continente senza frontiere”, e la devozione di Schütte per il quartetto è tutt’uno con il suo entusiasmo per il “più ampio sviluppo politico dell’integrazione europea dopo la seconda guerra mondiale”. Come per la fusione uomo-macchina, secondo lui c’è una consonanza armoniosa tra l’opera dei Kraftwerk e il progetto dell’Unione europea. A volte, però, l’ottimismo di Schütte vacilla: “Pensando al domani, si vedono più minacce che opportunità”. E si chiede: “Nel clima attuale, tra crisi economica, riscaldamento globale, demagogia politica ed erosione dei valori democratici, come possiamo immaginare di costruire un futuro migliore?”. Ed ecco che i Kraftwerk vengono abilmente presentati come gli ultimi grandi modernisti, i placidi retro-futuristi la cui visione tardonovecentesca sembra brillare di malinconia per l’armonioso futuro collettivo che non siamo riusciti a realizzare.
Nessuno, trattando questi temi prima del 2020, avrebbe potuto immaginare che effetto avrebbero fatto certe idee alla luce del covid-19. Se la descrizione di Schütte della “visione tedesca di un’Europa pacifica, caratterizzata da frontiere aperte, dalla libera circolazione e da uno spirito di cooperazione reciproca verso un’unione sempre più stretta” prima poteva sembrare quasi scontata, oggi suona pallida. Finora, lo “spirito di cooperazione reciproca” dell’Europa in risposta al virus non si è visto molto. Il nord si fa beffe del sud; il sud è furioso perché si sente messo in ridicolo e trascurato dal nord. Leggendo uno dei tanti articoli sulle lotte all’interno dell’Unione – “secondo l’ex ministro delle finanze olandese Jeroen Dijsselbloem i paesi dell’Europa meridionale avrebbero sprecato i soldi in ‘alcol e donne’” – ho avuto una visione improvvisa: da una parte i Kraftwerk, calmi e logici portavoce del nord frugale, dall’altra la disco italiana, dozzinale e sfrenata, a rappresentare il sud dissoluto. Quando Schütte affronta la questione dell’identità tedesca dei Kraftwerk afferma: “Il concetto di ‘musica etnica’ non va in nessun modo inteso in senso criptonazionalista”. La cosa più irritante è la certezza con cui lo dice. Dove ho sentito lo stesso tono ultimamente? Ah, sì: nel dibattito sulla Brexit. Quando Schütte prende ipocritamente di mira quella che definisce la “triste realtà della Brexit e la folle determinazione delle componenti eurofobiche della società a recidere i legami politici ed economici con l’Europa”, si ha l’impressione che dia per scontato che nessuno di questi spregevoli soggetti possa essere un lettore del suo libro o un fan dei Kraftwerk.
Alla fine sorge una domanda: siamo sicuri che gesamtkunstwerk _sia una bella parola da mettere in giro in questo momento? In passato, l’ammirazione per questa spinta totalizzante ha spesso portato frutti spaventosi, e quella che Schütte chiama la “volontà artistica di unificare, semplificare e integrare” dei Kraftwerk rischia di suonare po’ inquietante. Con il vecchio progetto dell’apertura delle frontiere già gravemente compromesso dal covid-19 e il riemergere dei nazionalismi che cantano a squarciagola, il sogno europeo non sembra più così infinito. ◆ _fas
Ian Penman
è un giornalista e critico musicale britannico. Questo articolo è una recensione del libro di Uwe Schütte Kraftwerk: future music from Germany (Penguin 2020).
È uscito sulla London Review of Books con il titolo Vorsprung durch techno.
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Questo articolo è uscito sul numero 1379 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati