Walterine McLeod sospira. La direttrice è in piedi davanti a un gruppo di bambini tra i sei e i nove anni. Fuori della stanza ci sono i genitori, in attesa di pagare la retta. La scuola di McLeod è riservata ai figli dei dipendenti pubblici e dei piccoli commercianti. La classe media, insomma. Eppure ogni mese il momento della retta è sempre complicato. “Ho 61 anni e non ho mai visto la Guyana così in difficoltà”, dice McLeod.

Sono le sette e mezza del mattino, poco prima dell’inizio delle lezioni. Le aule sono piene e i bambini restano seduti in silenzio sulle loro sedie di legno, almeno ci provano. McLeod ha un atteggiamento materno e una voce energica. Oggi deve tenerli occupati per poter incontrare i genitori, quindi intona: “Cara terra di Guyana, di fiumi e pianure”. Poi lascia che i piccoli completino l’inno nazionale e sparisce nei corridoi.

Non è un’esperta di economia né di questioni petrolifere, ma può testimoniare personalmente com’è cresciuto il paese negli ultimi anni dopo la scoperta di un gigantesco giacimento di petrolio. È in una buona posizione per descrivere la situazione: è benestante, ma i suoi studenti non lo sono e i loro genitori sentono il peso dei problemi del paese.

Divisioni etniche

La Guyana è diventata ricca all’improvviso: oggi ha un reddito pro capite più alto di quelli di Francia o Germania. Se la tendenza attuale dovesse confermarsi, presto il reddito pro capite potrebbe superare quello svizzero. Tuttavia McLeod, a differenza di ciò che fa il governo, non se la sente di parlare di un futuro radioso. Seduta nel suo ufficio, sfoglia le buste lasciate dai genitori, spesso mezze vuote.

“Molti non riescono a pagare”, dice. Sembrano parole assurde, ma lo è anche la situazione della Guyana. Secondo i dati ufficiali, il piccolo paese situato sulla costa atlantica settentrionale del Sudamerica non è mai stato così prospero. Il problema è che questa manna non arriva alle persone che mandano avanti la società: gli insegnanti, gli infermieri, gli agenti di polizia e perfino i rappresentanti dell’alta borghesia come Walterine McLeod.

Dieci anni fa la Guyana era ancora il secondo paese più povero del Sudamerica in termini di reddito pro capite. Poi, nel 2015, la multinazionale statunitense ExxonMobil ha trovato il petrolio lungo la costa nazionale, che va dal confine occidentale con il Venezuela a quello orientale con il Suriname. I pozzi sono operativi dal 2019, e da allora la Guyana nuota nei soldi. Almeno in teoria. I dati somigliano a un errore di battitura: nel 2024 l’economia è cresciuta del 43,6 per cento, doppia
cifra per il quinto anno di fila. Nessun altro paese del mondo può reggere il confronto.

La versione è sempre la stessa: dove c’è il petrolio arriva la ricchezza, quasi automaticamente. Nella storia dell’industria petrolifera non era mai capitato che un giacimento fosse sfruttato così rapidamente. Dalla scoperta all’esportazione sono passati meno di cinque anni. La frenesia non accenna a rallentare, tra pressione, rapidità e molte promesse. Anche l’Europa ne beneficia: oggi il 66 per cento del petrolio della Guyana è esportato nei paesi dell’Unione.

McLeod chiude il registro e osserva Georgetown, la capitale. Nella luce del mattino una folla di persone si fa largo tra le strade del centro, popolate da venditori ambulanti e taxi che suonano il clacson per attirare i passeggeri. “Un tempo sapevamo goderci di più la vita”, dice McLeod. “Prima che…”. Si interrompe. Ama le pause e le usa con la precisione di un’insegnante consapevole che un alunno impara meglio quando trova le risposte da solo. “Prima che arrivasse il petrolio”.

Nonostante la sua posizione nel continente sudamericano, la Guyana è considerata un paese caraibico. La sua storia è legata a quella degli altri stati dei Caraibi e quasi del tutto separata dal resto del continente ispanofono e lusofono. Il crick­et è lo sport nazionale, come a Cuba, in Giamaica e alle Barbados. Il creolo inglese parlato dagli abitanti è vicino a quello della musica reggae. Per migliaia di anni la Guyana fu abitata dai nativi carib e arawak, della stessa famiglia linguistica presente nel resto della regione. Poi fu colonizzata dai britannici, dagli olandesi e dai francesi. La popolazione attuale è il risultato di questa storia coloniale. Gli olandesi portarono schiavi dall’Africa occidentale e i loro discendenti oggi convivono con quelli degli indoguyanesi, arrivati da altre parti dell’impero britannico come “lavoratori vincolati” e partiti da territori che oggi sono in India, Pakistan e Bangladesh.

Nel 1966 la Guyana ottenne l’indipendenza e fu dichiarata Repubblica cooperativa della Guyana, seguendo un principio guida del marxismo adottato dai leader indipendentisti Cheddi Jagan e Forbes Burnham. I guyanesi avrebbero dovuto creare cooperative agricole, industriali e di credito. La collaborazione tra i vari gruppi etnici era al centro di quest’idea, che però fallì con la rottura dei rapporti tra Burnham, un afroguyanese, e Jagan, un indoguyanese. Negli anni successivi le divisioni etniche si accentuarono. Oggi il paese è governato dal Partito progressista del popolo/Civic, composto soprattutto da persone di origine indiana che controllano le ricchezze petrolifere. L’opposizione, che si considera la voce della minoranza afroguyanese, si sente emarginata.

“Qui c’erano chilometri e chilometri di palude”, spiega Rohit Gulchand indicando quello che sembra il cuore di un paese nuovo: un centro di logistica all’avanguardia con gru, container e un bacino portuale. Oggi la zona ospita la Guyana shore base, un hub destinato a soddisfare le necessità delle piattaforme petrolifere offshore: cibo, ricambi, utensili e pompe. La struttura è attiva ventiquattr’ore al giorno, sette giorni su sette. “Ho cominciato come assistente non qualificato”, racconta Gulchand, che gestisce tutte le operazioni. In pochi anni è passato dal ruolo di operaio semplice a quello di dirigente, con un salario che gli ha aperto possibilità prima sconosciute: ristoranti, viaggi e beni di lusso. Il sogno che il governo promette a tutti i cittadini.

In passato i lavoratori locali faticavano a trovare un impiego, ma oggi sono molto richiesti. Decine di aziende del settore petrolifero assumono e formano chiunque voglia lavorare sulle piattaforme o presso i fornitori. Molte aziende lavorano per la ExxonMobil. “Qui sono quasi tutti guyanesi”, conferma Gulchand. “Siamo circa il 95 per cento della forza lavoro”.

Un vecchio trucco

“La Guyana ha imparato dagli errori degli altri”, afferma il ministro dell’energia Vickram Bharrat nel suo ufficio. Un gruppo di persone aspetta di essere ricevuto. Tra loro c’è il capo della Exxon in Guyana, Alistair Routledge, mentre gli altri sono diplomatici e dirigenti del settore petrolifero. Bharrat è amichevole ma sbrigativo. “Solo otto anni fa quasi nessuno sapeva dell’esistenza della Guyana”, dice. “Oggi accogliamo investitori che non sarebbero mai venuti se non avessimo avuto il petrolio”.

La fila degli interessati è lunga. “Produciamo 650mila barili al giorno solo su tre piattaforme”, sottolinea. Entro il 2028 la cifra dovrebbe raddoppiare e apriranno cinque nuovi impianti. In proporzione con il numero di abitanti (circa 814mila), nessuno stato al mondo produrrà più petrolio della Guyana.

Nel paese è in vigore una legge che fissa quote di impiego per i cittadini guyanesi nelle aziende che si occupano della logistica. Per le mansioni semplici che non richiedono una qualifica specifica, come nel settore dei trasporti e della sicurezza, la quota è del 100 per cento.

Oggi decine di aziende del settore petrolifero assumono e formano chiunque voglia lavorare sulle piattaforme o presso i fornitori

“Le aziende non erano felici di queste quote”, spiega Bharrat. “Ma alla fine le hanno accettate”.

Bharrat affronta il tema del contratto con la Exxon. Non parla in modo diretto, ma si fa capire: “Non penso che il contratto sia stato negoziato davvero nell’interesse della Guyana”, dice. L’accordo è stato firmato dal governo precedente, oggi all’opposizione, ma era basato su una bozza preparata dal Partito progressista del popolo/Civic di Bharrat nel 2008, a sua volta ispirata a un contratto del 1999. Il risultato è che ogni partito scarica la responsabilità del contratto sugli avversari.

Thomas Singh, professore di economia dell’università della Guyana, è più schietto: “Il contratto crea incentivi sbagliati”, dice. “La royalty del 2 per cento che spetta allo stato per il petrolio estratto in territorio guyanese è una delle più basse al mondo. La ExxonMobil, inoltre, non paga le tasse. Il governo non partecipa alle operazioni di estrazione e la Guyana riceve una parte dei profitti solo dopo che la Exxon ha detratto i costi. Gonfiano artificialmente le loro spese per minimizzare i profitti”.

È un vecchio trucco: prezzi alterati, commissioni gonfiate e ricche fatture interne per i servizi. “La Guyana incassa appena il 14,2 per cento degli introiti reali”. Secondo diverse inchieste giornalistiche, la ExxonMobil ha creato una complessa struttura aziendale in Lussemburgo e nei Paesi Bassi per le sue operazioni in Guyana, in modo da non pagare le tasse nemmeno in Texas, negli Stati Uniti, dove ha la sede centrale.

Transparency international ha definito questo sistema senza giri di parole: “È la solita procedura per lo sfruttamento”. Frederick Collins, ex direttore di Transparency in Guyana, spiega che “la ExxonMobil sta depredando il paese”, aggiungendo che “è entrato nel mondo del petrolio senza preparazione e si è messo nelle condizioni di essere sfruttato”.

Il mercato di Stabroek a Georgetown, 2025 (Luca Zanetti)

“I prossimi contratti saranno diversi”, assicura Bharrat. Ma quello con la ExxonMobil non si può toccare. “Se lo violassimo perderemmo la fiducia non solo dell’azienda, ma anche degli altri investitori”. È un gioco di potere che la Guyana non può vincere, non ora almeno.

Nel tentativo di ottenere una risposta dalla ExxonMobil sulle accuse di Tomas Singh, Vickram Bharrat e dei giornali, ho mandato email e messaggi, e fatto una serie di telefonate. L’ufficio per le comunicazioni della ExxonMobil in Guyana ha risposto in modo evasivo. Per tre volte io e il fotografo abbiamo avuto un appuntamento ma nessuno ci ha ricevuto. Poi non siamo più riusciti a contattare nessuno al telefono. Parlando con i giornalisti del posto abbiamo scoperto che la multinazionale usa sempre questo metodo. Alla fine l’ufficio stampa della sede centrale ci ha inviato un’email: “Non abbiamo intenzione di contribuire al vostro articolo”.

“Per pensare lucidamente serve un ambiente ordinato”, dice McLeod. La sua libreria è piena di classici dell’autoaiuto: “Come farsi nuovi amici e influenzare la gente”, “La magia del pensare in grande” o “Pensa e arricchisciti”. Tra i titoli c’è anche quello che è diventato la missione della scuola: “Coltivare i semi della grandezza”. “Faccio l’insegnante da quarant’anni e mi si spezza il cuore quando i bambini non ricevono l’istruzione che meritano”, dice.

Per questo nel 2018 ha fondato la scuola. È un istituto privato, i genitori dei suoi studenti sono commercianti, impiegati e agenti di polizia. La scuola è stata pensata come un’alternativa al sistema pubblico, sovraffollato e scarsamente finanziato. McLeod ha mantenuto la retta bassa fino a quando ha potuto. Poi è arrivato il petrolio. Credeva che un aumento degli stipendi dei cittadini avrebbe incoraggiato più genitori a iscrivere i figli in scuole di alto livello. Invece è successo il contrario. Il primo anno l’affitto della struttura era di centomila dollari guyanesi, circa 400 euro. Oggi è di 600mila dollari. “Non mi verso più lo stipendio”, dice McLeod. “Così posso pagare gli insegnanti”. Ma ha dovuto aumentare la retta. “In passato spendevo trentamila dollari al mese per fare la spesa”, racconta McLeod. “Oggi ne spendo diecimila ogni settimana solo per la frutta”. Nella sua scuola un’insegnante appena assunta guadagna ottantamila dollari guyanesi al mese. McLeod paga i suoi dipendenti più di quanto riceverebbero negli istituti pubblici, ma non basta per avere una vita dignitosa.

Da studente il presidente Ali ha vissuto la mancanza di democrazia che ha reso la Guyana il secondo paese più povero della regione

Il governo è consapevole del problema e distribuisce aiuti per medicine e materiale scolastico. Di recente è stato istituito un aiuto economico senza una destinazione specifica: centomila dollari per ogni famiglia. “Questi soldi non finiscono dove dovrebbero”. Appena viene annunciato un sussidio per il materiale scolastico, i prezzi dei quaderni aumentano. E da quando le famiglie hanno ricevuto i centomila dollari, i generi alimentari sono diventati più cari.

I problemi della gente

Ubraj Narine scende dall’auto e subito si sentono le urla: “Signor Narine, signor sindaco! I miei figli hanno bisogno di quaderni per la scuola”, “Signor Narine, la spazzatura non viene raccolta”. Ubraj Narine, 33 anni, risolve problemi, anche se non è più sindaco da due anni. Vive al telefono. Durante i nostri quattro incontri è stato accompagnato da una guardia del corpo, che si preoccupava più di filmarci che di proteggere il suo datore di lavoro. Narine sa come attirare l’attenzione. Dal 2019 al 2024 è stato sindaco di Georgetown, il centro politico ed economico del paese. Il sindaco più giovane della storia e anche il più popolare. Oggi, nel mercato Stabroek, il più grande della Guyana, una sua breve visita si trasforma in mezza giornata di discorsi, richieste e promesse.

“Avrei vinto ancora, non c’è dubbio”, afferma. Ma ha progetti più ambiziosi. Anche se non lo dice apertamente, vorrebbe diventare presidente, mentre ora fa parte dell’opposizione. “Il governo basa la sua attività sul nepotismo”, accusa. Narine era un outsider ed era stato eletto sindaco della capitale senza appoggi importanti. È anche un sacerdote indù e già prima di intraprendere la carriera politica aveva un certo seguito e molti sostenitori in rete. Durante la campagna elettorale il suo slogan è stato “costruire ponti, non muri”. Una volta eletto, però, ha scoperto che il muro era ancora in piedi, e che chi stava dall’altra parte era più potente di lui. “Il petrolio scorre da Georgetown, verso il porto. Ma io non ho visto un centesimo”, spiega .

I proprietari degli immobili hanno aumentato gli affitti perché non esiste alcuna regolamentazione. Lo stesso vale per il prezzo degli alimenti. La vita è diventata del 30 per cento più cara, al netto degli affitti. Secondo Narine il rincaro reale è vicino al 50 per cento, mentre per McLeod è intorno al 300 per cento, affitti compresi. L’ufficio nazionale di statistica sostiene che negli ultimi tre anni l’inflazione è rimasta stabile al 3 per cento.

Quando era sindaco Narine aveva un programma quotidiano preciso: “La mattina in ufficio, il pomeriggio tra la gente”. Ora che è tornato a lavorare come assistente legale non ha cambiato le sue abitudini. I cittadini continuano a raccontargli i loro problemi: “Una zucca costa mille dollari guyanesi, chi può permettersela?”, “Non riesco più a trovare frutta economica da vendere”, “Coltivo le banane, ma il prezzo dei pesticidi è insostenibile”.

Georgetown, 2025. Il presidente Mohamed Irfaan Ali (Luca Zanetti)

Negozi di lusso

Qual è il vero motivo dell’aumento dei prezzi? L’economista Thomas Singh elenca tre ragioni. Innanzitutto la domanda è cresciuta, perché le piattaforme petrolifere e le sedi delle aziende comprano gli alimenti in grande quantità prima ancora che raggiungano il mercato al dettaglio, dato che hanno bisogno di rifornimenti continui. Questo fenomeno coinvolge decine di migliaia di persone che lavorano nella catena di distribuzione, con un impatto enorme considerando che la Guyana ha meno di un milione di abitanti. In secondo luogo, la quantità di prodotti alimentari è diminuita. Gli uomini che in passato lavoravano nei campi oggi sono impiegati nei cantieri per costruire strade, ponti e grattacieli finanziati con il petrolio. Gli agricoltori scarseggiano e i campi, spesso, restano vuoti. Infine, il governo non sembra avere conoscenze economiche adeguate. La paura del “male olandese” spinge le autorità a prendere decisioni sbagliate.

Il male olandese – il nome deriva dalla scoperta del petrolio al largo di Groningen negli anni sessanta – indica le conseguenze dell’improvviso arricchimento di un paese grazie alle materie prime e il modo in cui il resto dell’economia si sviluppa di conseguenza: il valore della valuta cresce, rendendo le importazioni più economiche ed esercitando una forte pressione sulla produzione locale, compresa quella alimentare; i lavoratori sono attratti dal settore che sfrutta le risorse naturali perché gli stipendi sono più alti, e questo fa crescere il costo della manodopera; i prodotti locali diventano più cari e le esportazioni si esauriscono perché i compratori non sono disposti a pagare di più. S’innesca un circolo vizioso: l’unico settore redditizio su cui si concentrano gli investimenti è quello estrattivo e questo mette in crisi gli altri.

La banca centrale della Guyana sta cercando di contrastare la tendenza controllando il tasso di cambio e mantenendo debole il dollaro guyanese. Ma ciò significa che le importazioni restano molto costose e dunque per le famiglie guyanesi non c’è un maggiore potere d’acquisto rispetto agli anni precedenti alla scoperta del petrolio. I beni più importanti come i prodotti alimentari e l’affitto oggi costano di più senza che gli stipendi siano aumentati. Allo stesso tempo, la produzione interna sta diventando più cara a causa della migrazione dei lavoratori verso il settore petrolifero.

Nonostante i provvedimenti della banca centrale, il verdetto di Singh è spietato: il governo si preoccupa solo di presentare un’economia sana agli investitori stranieri, a spese dei cittadini più poveri.

“Siamo deboli nei numeri e forti nella retorica”, conferma Nigel Hughes, candidato del partito di opposizione Alleanza per il cambiamento alle presidenziali dello scorso 1 settembre. Hughes è uno degli avvocati più noti del paese. Dato che il suo studio rappresenta anche la ExxonMobil non vuole parlare della multinazionale, pur riconoscendo che “il costo della vita è stato il tema più importante della campagna elettorale”. Poi aggiunge: “Abbiamo il 40 per cento di povertà infantile. Siamo uno dei paesi più ricchi del mondo e non possiamo sfamarci”.

Il 98 per cento del denaro ricavato dal petrolio viene speso subito e non resta niente da mettere da parte. “Costruiamo infrastrutture inadeguate, strade che finiscono nel nulla. E per chi? L’80 per cento dei nostri laureati lascia il paese entro tre anni dal termine degli studi. Tutti i problemi che la Guyana aveva in passato sono stati aggravati dal petrolio”, dice.

Anche dopo tre settimane a Georgetown è difficile capire come sta cambiando il paese. Camminando lungo la Sea Wall, una diga di pietra che protegge il centro dalle acque dell’estuario del Demerara, il nuovo volto della città è evidente: l’enorme albergo Marriott sul promontorio, il Pegaus accanto. Presto si aggiungerà un Hilton. I negozi di lusso sono ovunque, pizze e dolci hanno prezzi folli, ma ci sono persone che possono permetterseli. Poco lontano, nella zona alla moda di Kitty, un bar serve un cappuccino a otto euro. È pieno.

Crisi e gioie

È un sabato mattina quando io e il fotografo attraversiamo Tiger Bay, una baraccopoli nel centro di Georgetown con case in lamiera, vicoli stretti e fogne a cielo aperto. Una donna ci racconta che vive qui da 49 anni e non ha ricevuto sussidi dal governo perché non ha un certificato di nascita, quindi non può presentare la richiesta. Un signore anziano con un dente d’oro ci mostra come ha speso i centomila dollari ricevuti dal governo: una dentatura nuova.

Accanto alla baraccopoli, oltre le mura, le recinzioni e le guardie armate, c’è il palazzo presidenziale. Veniamo accolti nell’edificio principale, una struttura in legno coloniale dipinta di bianco nello stile caraibico olandese. Al secondo piano il presidente Mohamed Irfaan Ali, rieletto il 1 settembre per un secondo mandato, ci riceve con indosso una maglietta. “Scusate il mio abbigliamento, devo andare nell’entroterra”.

Un negozio indiano a Georgetown, 2025 (Luca Zanetti)

Ali ha 45 anni e ne dimostra meno. I suoi collaboratori dicono che è instancabile. Viaggia continuamente nella foresta pluviale, nei villaggi più isolati, nei cantieri, negli insediamenti provvisori e nei mercati. Ali è ovunque ed è molto popolare. Il fatto che il petrolio abbia cominciato a scorrere durante il suo mandato lo aiuta.

“La Guyana in cui sono cresciuto era ed è ancora il paese più bello del mondo”, dichiara. Ali parla di fiumi e cascate, di foreste, di centinaia di specie di uccelli, di culture che si uniscono e che secondo lui hanno prodotto la cucina più interessante del Sudamerica. Poi racconta di quando da bambino andava a prendere l’acqua dal pozzo e a volte non ce n’era. Da studente e dottorando ha vissuto la mancanza di democrazia che ha reso la Guyana il secondo paese più povero della regione. “Chi lotta per sopravvivere ogni giorno non ha forze per il progresso”.

Ali vuole che questa situazione cambi, che la democrazia fiorisca e il paese si rialzi. Il petrolio rappresenta un rischio, ma anche un’opportunità. “È meglio affrontare le sfide con molto denaro piuttosto che con poco”. La sua visione è quella di una nuova Guyana, bella come quella della sua infanzia ma migliore in tutti i campi.

E i problemi attuali? Secondo il presidente sono solo fenomeni transitori. L’aumento degli affitti, il rincaro degli alimenti, la gente che si sente abbandonata? Sintomi di trasformazione, garantisce Ali. “Ci mancano ingegneri, medici, persone che lavorano nell’edilizia. La nostra crescita è talmente rapida che non riusciamo a tenere il passo. Entro il 2030 vogliamo essere al livello delle grandi economie del mondo. Stiamo cercando di trasformare la vita di tutti i guyanesi”. Le critiche non lo scuotono, anche perché le considera irrilevanti. Cosa pensa dei sussidi per gli affitti? “Vogliamo che i nostri cittadini possiedano una casa, non che l’affittino”. Sussidi alimentari? “Vogliamo diventare autosufficienti e rifornire gli altri paesi della regione”. Aiuti diretti? “Insegniamo alle persone a investire su se stesse”. Ali vuole una Guyana completamente nuova. “Voglio creare l’economia di domani: agrobusiness, trasformazione, innovazione, tecnologia”.

In effetti in Guyana molte cose vanno meglio rispetto a quanto successo in altri paesi diventati ricchi all’improvviso. Ma il rischio è che si ripeta una storia tristemente familiare: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Quasi nessun paese democratico ha mai vissuto un’ondata di ricchezza di questo tipo senza scossoni. Il petrolio ha spinto la Nigeria e il Venezuela verso l’autocrazia, per esempio.

Solo la Norvegia rappresenta un’eccezione tra i giovani stati petroliferi, e nel suo caso la coesione sociale deriva probabilmente più dai secoli di solidarietà che da una straordinaria capacità di gestione del governo nazionale.

Ali ha un piano: la sua Guyana dovrebbe diventare ricca grazie al petrolio e spendere in altri settori, per evitare il male olandese. Ma finora non sembra che stia funzionando. Molte delle persone che Ali vorrebbe coinvolgere nella costruzione del nuovo paese oggi sono abbandonate a se stesse. La speranza è che ne saranno rimaste abbastanza quando (e se) la Guyana finalmente realizzerà la sua missione. Walterine McLeod vive in equilibrio su questa soglia d’incertezza. Ha ancora un buon tenore di vita, ma non migliore rispetto a quello di una volta. Anche se tutto lascia sperare in un futuro roseo – nuove strade, più posti di lavoro, introiti alle stelle per lo stato – la situazione resta instabile. Ma la ricchezza non dovrebbe portare sicurezza? “Ho imparato a non preoccuparmi del futuro”, dice. “Il futuro porta le sue crisi ma anche le sue gioie”.

Un gruppo di bambini è seduto davanti all’ufficio di McLeod nell’Angolo patriottico, dove la bandiera nazionale sventola accanto a disegni di animali locali. Sulla stessa parete, quasi nascosto tra le foto di trattori e campi di canna da zucchero, c’è il disegno di una piattaforma petrolifera. ◆ _ as_

Fabian Federl **è un giornalista freelance francotedesco che vive tra Berlino e Rio de Janeiro. **Luca Zanetti è un fotografo svizzero nato nel 1971. Questo reportage
è uscito su Annabelle, un settimanale svizzero.

questo articolo Fabian Federl è un giornalista freelance francotedesco che vive tra Berlino e Rio de Janeiro. Luca Zanetti è un fotografo svizzero nato nel 1971. Questo reportage è uscito su Annabelle, un settimanale svizzero.

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Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati