Il memoir di Lea Ypi Libera (Feltrinelli 2022) racconta cosa ha significato crescere in Albania prima e dopo la caduta del comunismo. Nel suo nuovo libro, Indignity (inedito in Italia), ricostruisce invece la vita di sua nonna, arrivata da giovane a Tirana da Salonicco e poi impegnata nella vita politica del paese. La scrittrice turca Elif Shafak è autrice di più di venti libri tra cui I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo (Rizzoli 2019) e il più recente I ricordi dell’acqua (Rizzoli 2024). Per questa conversazione erano collegate in videochiamata, Ypi dall’India e Shafak da Londra.

Elif Shafak Viviamo in un’epoca di ansia. Si respira ovunque, a est come a ovest, tra giovani e anziani, è palpabile. In molti sensi questa è l’età d’oro della demagogia, quella in cui il demagogo populista può fare il suo ingresso in scena e dire: “Lasciate fare a me, renderò tutto più facile”.

Lea Ypi In letteratura si sperimenta con i generi, le culture e le lingue, e da qui nasce questo senso di complessità. Nel mondo politico succede quasi l’opposto, tutto ruota intorno alla semplicità. Bisogna solo restare sul messaggio, non renderlo troppo complesso. Deve essere breve. Meglio che sia semplice, al limite della banalità. E sempre più spesso è anche escludente. Così, nel discorso politico contemporaneo, c’è questa tendenza a dire, per esempio: ok, cacciamo i migranti. Come se si potesse avere una società giusta solo rendendola omogenea.

ES È importante parlare anche di censura. Non solo quella dall’esterno o dall’alto, ma anche quella interna, l’autocensura. Come si supera? Vengo da un paese in cui le parole pesano: scrivere di sesso, genere, memoria o storia può offendere le autorità. Ne ho avuto un assaggio quando uno dei miei romanzi, La bastarda di Istanbul, è stato citato in giudizio: racconta la storia di due famiglie, una armeno-americana e una turca, attraverso gli occhi delle donne, ma affronta la memoria, l’amnesia e quello che in Turchia rimane il più grande tabù, cioè il genocidio armeno. Quando il romanzo è stato pubblicato, mi hanno processato e il pubblico ministero ha chiesto che fossi condannata a tre anni di carcere. Le parole dei personaggi di finzione sono state portate in tribunale come prove. In quel periodo c’erano persone che bruciavano bandiere dell’Unione europea, sputavano sulla mia foto o la bruciavano, mi chiamavano traditrice.

Anni dopo altri due miei libri sono stati indagati per oscenità: I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo perché uno dei personaggi è una lavoratrice del sesso, e The gaze perché affronta temi come l’abuso sui minori. In un paese dove esistono le spose bambine. Queste sono le realtà delle società da cui veniamo. Dobbiamo ritagliarci uno spazio tutto nostro in cui possiamo ignorarle. Perché se cominciamo a pensare “la gente si offenderà? Le autorità si arrabbieranno?”, allora non scriveremo più neanche una riga.

LY Quello che ho osservato, crescendo in Albania e vivendo la transizione dal regime al periodo post-comunista, è che vivere in una società totalitaria ti rende sempre molto, molto sensibile a ogni tipo di propaganda. Non c’è mai stato un vero momento di rottura tra un prima in cui vivevo in un mondo non libero e un dopo in cui facevo parte del mondo libero: ho sempre dovuto rimanere vigile per vedere dove si annidavano la censura, la manipolazione ideologica e la propaganda, perché possono venire anche da luoghi che in un primo momento sembrano completamente innocui. Pensi di continuo a ciò che manca nella società in cui vivi: quali sono i vuoti della democrazia? C’è tutta questa esaltazione della libertà, ma vediamo politici e persone che prendono decisioni che limitano chiaramente le libertà degli altri, ovunque siano.

Non penso che un libro finisca quando lo scrittore lo finisce: continua a scriversi nel modo in cui le persone ne parlano, in cui i suoi temi alimentano i dibattiti culturali e sociali

In Albania abbiamo un’espressione: “Istanbul brucia e la vecchia si pettina i capelli”. Hai il timore che, in qualche modo, quello che fai sia completamente irrilevante, ma ti dici anche: il mio compito è solo rimanere critica, fare pressione e ricordare, cercare di far riflettere le persone su come il passato plasma il futuro, come queste idee si ripetono e come i conflitti politici del presente hanno tutti una storia e derivano da traumi irrisolti del passato.

ES Abbiamo tanto in comune: i soggetti, i temi di cui ci occupiamo, le geografie da cui proveniamo, ma anche i silenzi che scaviamo. Credo che per entrambe noi la memoria sia importante, non per restare intrappolate nel passato, ma perché senza ricordo non c’è riparazione.

LY Si comincia dal capire che ogni voce è sempre il risultato di qualche relazione di potere. Questa è stata la mia esperienza con Indignity, che parla di mia nonna: consultando gli archivi ho realizzato quanto è difficile fare ricerca su una donna, soprattutto se è vissuta negli anni venti e trenta. Abitava a Salonicco, che era ancora molto influenzata culturalmente dall’impero ottomano. La città era stata appena annessa alla Grecia, che plasmava cosa andava raccontato e in che modo.

Tutte le fonti ufficiali hanno i loro interessi, dobbiamo ricordarcene se decidiamo di usarle. Il modo in cui costruiscono un archivio, scrivono la storia o plasmano le tradizioni letterarie riflette sempre degli interessi, che di solito sono quelli dei potenti. Come mettere in discussione tutto questo? Credo che solo una letteratura che si fa atto di resistenza possa riuscirci, purché lo faccia in modo chiaro ed esplicito.

ES Penso che scrivere sia un po’ come essere un archeologo linguistico: bisogna scavare strati di storie, ma anche strati di oblio. Naturalmente, parlando dell’impero ottomano, ci riferiamo a un impero multietnico, multilingue e multireligioso durato più di seicento anni. È straordinariamente complesso e la storia cambia a seconda di chi la racconta, ma dobbiamo anche tenere presente chi non ha il permesso di raccontarla. È questo che vogliamo fare emergere.

Per esempio, c’è il modo in cui la storia ottomana viene insegnata a scuola in Turchia, e io ho frequentato scuole turche: rimane sempre un vuoto, e quello spazio è quasi sempre riempito da una nostalgia ultranazionalista, a volte ultrareligiosa, che racconta quanto grande fosse il nostro impero. Ovunque andassimo, portavamo giustizia e civiltà. Ma nel momento in cui cominci a chiedere: va bene, e le storie delle donne? Com’era l’impero ottomano per una prostituta, per una concubina in un harem, per una contadina senza potere né autorità? Allora cala un silenzio enorme. Oppure se fai domande su com’era per le minoranze, magari per un mugnaio ebreo, un contadino curdo, un agricoltore arabo, un marinaio greco. Com’era l’impero ottomano per loro? Oppure per un argentiere armeno? Di nuovo, grande silenzio.

Posso aggiungere solo una cosa? Non mi piace quando gli scrittori cercano di predicare, insegnare o fare lezioni, e penso che sia qualcosa a cui dobbiamo prestare molta attenzione.

LY La letteratura ha questa funzione democratica solo perché non predica. Se lo facesse, perderebbe questo ruolo. Se dico al lettore: “Ecco come dovresti vedere il mondo, questo è giusto e questo è sbagliato”, divento autoritaria. E così la letteratura non ha più il potere di diffondersi attraverso il lettore. Non penso che un libro finisca quando lo scrittore lo finisce: continua a scriversi nella ricezione, nel modo in cui le persone ne parlano, in cui i suoi temi alimentano i dibattiti culturali e sociali.

Quando è uscito Libera, la gente continuava a mandarmi una foto del presidente turco Erdoğan con il libro in mano durante un vertice sul trattato di pace Armenia-Azerbaigian. Per certi versi era sgradevole, perché vedevo quel libro – sapevo come l’avevo scritto, cosa volevo scrivere, parlava di libertà – in mano a personaggi molto autoritari. Spesso i politici si appropriano dell’arte in tutte le sue forme, ma a me viene da dire: “Va be’, anche questo fa parte della storia del libro”.

Viviamo in un luogo di ambiguità, e anche il mio atteggiamento è ambiguo; non mi piace il fatto di essere la scrittrice che scrive solo dell’Albania o del comunismo, o di cosa significhi vivere prima nel totalitarismo e poi nel capitalismo. Ciò che lo rende speciale per me, e sono sicura che lo sia anche per te, è che il mio è un piccolo posto da cui si può davvero ricostruire il mondo. L’Albania è stata sotto l’impero ottomano, ma la mia città natale, Durazzo, era una città romana. Ha uno dei più grandi anfiteatri dei Balcani. Prima ancora era una città ellenica. Dopo è stata un centro bizantino. È stata occupata da Venezia. In appena cento metri quadrati del centro ci sono millenni di storia europea. Mi fanno sempre ridere le discussioni sull’adesione all’Unione europea, perché penso: quand’è che non siamo stati influenzati dall’Ue? Quando mai l’Europa ci ha lasciati in pace?

ES Scrivere romanzi in Turchia è un’esperienza pesante, e per una donna credo lo sia ancora di più, perché deve affrontare strati di misoginia e patriarcato. Non voglio dipingere un quadro del tutto cupo, ma ci tengo a essere sincera: su una guancia ti arrivano gli schiaffi, e fa male; ma al tempo stesso sull’altra ti coprono di baci, perché i lettori leggono. Le storie contano, soprattutto nei paesi dove la democrazia è in declino. Se un paese va indietro, ironicamente la letteratura e le arti diventano ancora più cruciali. Si vive un’esistenza molto divisa.

LY Non so se sia un segnale deprimente dei tempi il fatto che nel mondo culturale abbiamo dibattiti davvero interessanti che non si riflettono quasi per niente nel mondo politico, dove, anzi, vediamo l’opposto: semplificazione, riduzione ed esclusione. Com’è possibile che ancora non siamo riusciti a trovare un modo per collegare i due mondi?

ES Non riesco a dimenticare di essere un’immigrata nel Regno Unito, ma allo stesso tempo credo davvero nelle appartenenze multiple. Naturalmente essere turca è una parte importante del mio lavoro e di chi sono, ma anche il Regno Unito mi ha dato molto. La lingua inglese mi ha dato tanto, e la uso per scrivere da più di vent’anni. Non posso negare che mi abbia dato un senso di casa. Però mi piace pensarmi come una cittadina dell’umanità, come cittadina del mondo, qualcosa che in questo periodo di demagogia populista è stato molto sminuito. Ci hanno detto che se sei cittadino del mondo non sei cittadino di nessun luogo, ed è un’idea a cui mi oppongo. Penso sia sbagliata. Viviamo in un’epoca molto complessa. Ci aspettano enormi sfide globali e tutto, dalla crisi climatica alla possibilità di un’altra pandemia fino all’aggravarsi delle disuguaglianze, mostra quanto siamo profondamente interconnessi. ◆ svb

Lea Ypi è una filosofa e scrittrice albanese. Insegna filosofia politica alla London school of economics. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Confini di classe (Feltrinelli 2025).

Elif Shafak è una scrittrice turca residente nel Regno Unito. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è I ricordi dell’acqua (Rizzoli 2024).

Questo incontro, trascritto da Alex Clark, è uscito sul quotidiano britannico The Guardian con il titolo “‘Literature can be a form of resistance’: Lea Ypi talks to Elif Shafak about writing in the age of demagogues”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1633 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati