La vecchia porta in legno dipinta di blu resiste, ma poi cigolando finisce per cedere. “Oh mio dio! È terribile!”, grida Carla (il nome è di fantasia), la voce soffocata dalle lacrime. La donna, che ha 37 anni, si precipita nel santuario saccheggiato. Polvere giallastra, erbacce, merletti lacerati, decine di oggetti rituali sparsi per terra in frantumi. Appoggiata contro un muro una piccola bambola abbandonata, con il vestito bianco decorato di perle e conchiglie, fissa con occhi vuoti questo disastro.

“Non ci tornavo da due anni. È terribile. Questo era un luogo di vita, di pace, di festa”, singhiozza Carla. L’Ilê Axé de Bate Folha, nella città di Duque de Caxias, alla periferia nord di Rio de Janeiro, in passato era uno dei principali terreiros della regione, luoghi di culto del candomblé, una religione afrobrasiliana che mescola credenze cristiane e riti africani. Un posto dove per decenni fedeli e credenti danzavano vestiti di bianco o con abiti riccamente decorati al ritmo dei tamburi sacri atabaque e dei canti intonati in lingua yoruba per celebrare i poteri della bella Oxum, la dea nera dei fiumi, della gioia e del vero amore.

La sacerdote Kátia de Lufan, che guida un terreiro, un luogo di culto del candomblé, nel quartiere di Vila da Penha a Rio de Janeiro, il 10 aprile 2021

Carla, che è stata iniziata a questa religione proprio qui, si calma, si siede e racconta: “Era l’11 luglio 2019, erano circa le 9.30 del mattino ed era bel tempo”. Quel giorno Maria Edouarda (nome di fantasia), 85 anni, grande sacerdote del candomblé – mãe de santo Yatemyquiamasi, secondo il suo nome religioso – aveva dato una spazzata al suo terreiro. Qualche minuto dopo hanno bussato alla porta. Erano “tre ragazzi sotto i 25 anni in pantaloni corti e sandali, armati di pistola”, continua Carla. Uno di loro è entrato minaccioso nel locale: “Adesso, vecchia mia, hai finito di scherzare. La smetterai con la tua stregoneria del demonio!”.

Per un’ora la mãe de santo è stata costretta a rompere personalmente, uno dopo l’altro, gli oggetti sacri del santuario. Gli abiti rituali e gli strumenti musicali sono stati gettati in strada e bruciati. “Lei ha cercato di calmare i ragazzi, li ha supplicati di smettere, ha pianto”, continua Carla. La barbarie è finita un’ora dopo con l’arrivo della polizia. Ma una volta tornata la calma, i fedeli spaventati hanno deciso di chiudere il terreiro. “Tutto quello che era sacro è stato distrutto. Le nostre vite sono state annientate”, sospira Carla.

Il triste destino dell’Ilê Axé de Bate Folha non è un caso isolato. Oggi a Rio il candomblé e le altre religioni afrobrasiliane sono vittime di atti d’intolleranza religiosa, che colpiscono soprattutto le favelas e le periferie popolari della metropoli, dove regna un’atmosfera di terrore. Solo in questa regione quasi duecento luoghi di culto avrebbero subìto minacce e attacchi armati, e molti centri sono stati costretti a chiudere.

Fascino e rifiuto

Il candomblé è una religione minoritaria. I suoi praticanti, così come quelli delle altre religioni di matrice africana (umbanda, jurema, xambá, terec, macumba, jarê e così via) nate dall’incontro tra il cattolicesimo portoghese e i culti tradizionali degli schiavi portati con la forza in Brasile, rappresentano appena lo 0,6 per cento della popolazione del paese. I fedeli si concentrano per lo più nei centri urbani degli stati di Rio, Recife, Maranhão e Bahia. Questi rituali misteriosi, in cui le donne hanno un ruolo molto importante, onorano le divinità orisha e altre figure esoteriche alternando danza trascendentale, offerte di animali o il lancio delle conchiglie, e hanno sempre affascinato i viaggiatori stranieri.

Ma in Brasile hanno anche suscitato un profondo rifiuto. “Il candomblé è stato a lungo considerato come qualcosa di cui vergognarsi, di marginale e inferiore, associato agli schiavi e alla magia nera”, spiega Reginaldo Prandi, sociologo specializzato in religioni afrobrasiliane.

La “lobby della Bibbia”, ostile al candomblé e alle religioni afrobrasiliane, ha una grande influenza sui politici

La situazione cominciò a migliorare solo a partire dagli anni cinquanta e sessanta del novecento. In quell’epoca il cinema, la musica e la letteratura s’impadronirono delle radici africane del Brasile. Vinícius de Moraes, poeta fondatore della bossa nova, “il bianco più nero del Brasile” come si definiva lui stesso, cantava in omaggio a Xangô e Iemanjá, divinità del fuoco e del mare.

Nel 1962 il film La parola data, diretto da Anselmo Duarte e la cui storia è legata al candomblé, vinse la Palma d’oro a Cannes. Così la religione della vergogna diventò di moda, e addirittura qualcosa di cui essere fieri. “Si pensava che le persecuzioni fossero finite”, ricorda Reginaldo Prandi. Ma non durò a lungo.

In questo inizio di aprile 2021 cade una pioggia triste sul Complexo de Israel, un insieme di cinque favelas situato nella zona nord di Rio de Janeiro. A Cidade Alta non si entra senza autorizzazione o dei buoni contatti. Il clima è pesante. Le strade sono controllate dai trafficanti di droga. Agli angoli delle strade adolescenti armati di fucile prendono di mira i visitatori sconosciuti. “Qui siamo in una zona di guerra”, confida un abitante.

Roberto (il nome è di fantasia), 24 anni, è nato e cresciuto a Cidade Alta. Ma oggi non ci mette quasi più piede. “Ho troppa paura di farmi uccidere”, ammette. Tre anni fa Roberto, praticante regolare del candomblé e suonatore di tamburo atabaque, ha rischiato di morire: “Tornavo a casa dalla funzione religiosa tra le 11 di sera e mezzanotte con dei pantaloni tradizionali candomblé dai motivi africani. A quanto pare questo non è piaciuto ai trafficanti”.

Fermato a un posto di blocco, Roberto si è trovato una pistola alla tempia. “Hanno urlato: ‘Il diavolo è in te! Se torni vestito così, soffrirai’”, racconta il ragazzo. Dopo avergli perquisito la casa, gli hanno ordinato di lasciare la favela entro sette giorni. “È stato il momento più terrificante della mia vita. I trafficanti armati erano sempre appostati di fronte a casa mia per controllare che rispettassi gli ordini e portassi via tutto con me”. I vicini non hanno reagito. “Tutti erano terrorizzati”, sospira Roberto.

Il suo non è un caso isolato. A Cidade Alta, un tempo importante centro del candomblé, “tutti i terreiros sono stati chiusi”, insiste Roberto. I fedeli troppo visibili, i sacerdoti (pais de santo) e le sacerdoti (mães de santo) sono state espulse con la forza. Nella favela è vietato andare in giro vestiti di bianco, il colore simbolo del candomblé. “Ci dicono: convertitevi alla religione evangelica o andate via”, racconta Roberto. “E chi cerca di opporsi rischia di essere ucciso”.

Pesce grosso

Dietro questi metodi ci sono tre lettere, scritte un po’ ovunque sui muri coperti di fuliggine di Cidade Alta: “Tcp”, Terceiro comando puro (Terzo comando puro), uno dei gruppi criminali più potenti e più brutali della città. Apparso nel 2002, fa regnare la sua legge di ferro nelle favelas di Duque de Caxias e del Complexo de Israel. Ha inaugurato una nuova figura della criminalità: il narcopentecostale, nato dall’alleanza tra le chiese evangeliche e i trafficanti.

L’artefice di questa unione è un misterioso giovane di 33 anni, Peixão (pesce grosso), che in realtà si chiama Alvaro Malaquias Santa Rosa ed è uno dei principali capi del Tcp. Una delle sue rare fotografie lo raffigura scuro di pelle, con una maglia da calcio e un anello d’oro al dito. Tutti affermano che è un fervente evangelico, addirittura fanatico, e che sarebbe stato ordinato pastore. “Vive come il capo di un esercito di dio”, spiega un abitante di Cidade Alta.

Come segno del suo potere, Peixão si è scelto la stella di David, simbolo venerato dai neopentecostali brasiliani, ammiratori dello stato d’Israele. Per marcare il territorio, il trafficante ne ha fatta appendere una enorme sul serbatoio d’acqua che domina Cidade Alta. Illuminata di blu, è visibile di notte a chilometri di distanza. Nelle favelas controllate dal Tcp, i templi sono molto numerosi e i pastori hanno rapporti diretti con i trafficanti. “Arrivano al punto di benedire le loro armi e i proiettili”, racconta una fonte attendibile interna all’ambiente giudiziario.

La nuova unione

In Brasile l’affermazione dei neopentecostali, molto presenti tra i più poveri, è stata incredibile: fino a un terzo della popolazione si dichiara evangelica. L’alleanza tra religiosi e narcotrafficanti sembra naturale. “Questi trafficanti sono molto credenti. Vedono il mondo come una guerra tra il bene e il male e per loro è un dovere distruggere le religioni considerate diaboliche, come il candomblé”, spiega l’antropologa Sonia Giacomini, esperta di religioni afrobrasiliane.

Ma altre ragioni molto più banali favoriscono questa alleanza all’apparenza contro natura. “Perseguitare i praticanti di religioni afrobrasiliane è anche un modo di assicurarsi il dominio su un quartiere. I trafficanti e i pastori allontanano qualunque autorità concorrente dal loro territorio”, continua la fonte giudiziaria. Che aggiunge: “Ci sono anche forti sospetti sul fatto che le chiese permettano alle gang di riciclare il denaro sporco”.

Tra i religiosi che predicano apertamente l’odio nei confronti del candomblé c’è il pastore Tupirani da Hora Leres. A 55 anni quest’uomo dalle folte sopracciglia, leader della chiesa pentecostale Generazione Gesù Cristo, ci riceve con il sorriso sulle labbra e la chitarra in mano nel suo garage convertito in luogo di culto nel quartiere popolare di Santo Cristo. Sulla porta di metallo ha fatto mettere una targa: “Pastore Tupirani: il primo predicatore imprigionato dallo stato democratico laico”.

Ben noto alla polizia, il pastore ha una lunga fedina penale. Nel 2009 ha passato diciotto giorni in prigione per istigazione all’intolleranza religiosa. Un recente video trasmesso sui social network, nel quale – in contrasto con le simpatie dei neopentecostali per Israele – fa appello al “massacro” degli ebrei “come durante la seconda guerra mondiale”, gli ha procurato nuovi problemi giudiziari. “Sono l’uomo polemico del momento”, commenta sorridendo.

Parlando delle religioni afrobrasiliane, Tupirani da Hora Leres diventa inarrestabile: “Conosco bene gli orrori del candomblé. Nei terreiros ci sono bambini drogati, posseduti e violentati dai pais de santo. È un orrore commesso in nome di una presunta religione. Per me è solo satanismo”.

Queste affermazioni ripugnanti sono ripetute continuamente in molti templi evangelici di Rio. Le azioni legali per intolleranza religiosa durano anni e le condanne sono rarissime.

“In commissariato le nostre denunce non sono prese sul serio”, si rammarica la sacerdote Kátia de Lufan, responsabile del terreiro di Vila da Penha. “Nella maggior parte dei casi i poliziotti sono cattolici o evangelici. Nessuno vuole ascoltare la nostra richiesta di aiuto”.

A sinistra: Kayllane, la nipote di Kátia de Lufan, davanti al terreiro Inzo Ria Lembá. A destra: un oggetto che raffigura una divinità del candomblé nel luogo di culto di Vila da Penha. Rio de Janeiro, 10 aprile 2021. (Kristin Bethge)

Kátia de Lufan, una donna carismatica di 59 anni con un turbante arancione in testa, accoglie nel suo spazio i praticanti del candomblé espulsi dalle favelas. In questo luogo riccamente decorato e dedicato in particolare al dio Oxalá, divinità della pace, possono “praticare il loro culto e conservare i loro oggetti rituali”, spiega. Nel 2015 sua nipote Kayllane, che all’epoca aveva 11 anni, è stata gravemente ferita alla testa da una pietra lanciata contro di lei mentre camminava per strada vestita di bianco. “Questo colore di pace è diventato simbolo di odio”, si lamenta la sacerdote. “La religione è strumentalizzata dai religiosi, ma anche dai politici”, aggiunge.

La “lobby della Bibbia”, composta da pastori neopentecostali, ricchi e seguiti dai mezzi d’informazione, ostili al candomblé e alle religioni afrobrasiliane, ha una grande influenza sui politici, dai consiglieri municipali ai vertici dello stato, compreso il presidente Jair Bolsonaro. In origine cattolico, Bolsonaro è stato “battezzato” nel 2016 nelle acque del Giordano da un pastore evangelico.

Una delle prime cose che ha fatto quando è arrivato al potere è stata ritirare le opere d’arte ispirate al candomblé che decoravano i saloni del palazzo presidenziale di Brasilia. Il capo dello stato si accompagna regolarmente ai pastori neopentecostali. “Bolsonaro mostra chiaramente di non avere alcuna simpatia per noi”, si arrabbia Marco Antônio Pinho Xavier, presidente del Movimento Umbanda do Amanhã, che difende le religioni afrobrasiliane. “Chi ci aggredisce beneficia di un clima politico favorevole”.

Il presidente ha nominato degli uomini a lui fedeli per guidare le istituzioni che dovrebbero proteggere la diversità religiosa. Al ministero dei diritti umani c’è un pastore esaltato, Damares Alves, e alla presidenza della Fondazione Palmares, incaricata di promuovere la cultura afrobrasiliana, c’è il giornalista Sergio Camargo, “nero di destra”, il quale afferma che in Brasile non esiste un “vero razzismo”. “Finché io sarò qui nulla andrà ai terreiros. Niente! Zero! Non avranno un centesimo”, ha dichiarato nell’aprile del 2020 durante una riunione di cui il quotidiano Estãdao ha ottenuto alcune registrazioni audio.

Valore simbolico

Soli e contro tutti, i praticanti del candomblé hanno conseguito di recente un’importante vittoria. Il 24 marzo 2021 le rovine dell’antico terreiro del leggendario pai de santo Joãozinho da Gomeia (1914-1971) a Duque de Caxias sono state inserite nel patrimonio storico del paese grazie al voto favorevole dell’assemblea legislativa dello stato di Rio.

Questi luoghi, abbandonati e occupati da ragazzi di strada e da cavalli famelici, conservano un fortissimo valore simbolico per i credenti.

Kristin Bethge

Nel 2020 il sindaco della città, Wash­ington Reis, in piena campagna per le elezioni municipali, aveva annunciato di volerci costruire un asilo nido. Il progetto aveva soddisfatto i pastori, ma aveva provocato un’ondata d’indignazione tra le associazioni afro, che avevano manifestato la loro rabbia e ottenuto un’attenzione nazionale.

“Abbiamo fatto vedere a tutti che non ci saremmo arresi a quest’uomo, che è un vero razzista. Questo dimostra che mobilitandosi si possono ottenere delle cose”, spiega la mãe de santo Seci Caxi, 59 anni, che ha guidato il movimento. Il municipio di Duque de Caxias non ha risposto alle nostre richieste di intervista.

In questa lotta i seguaci del candomblé hanno ottenuto l’appoggio di una pastora evangelica, Mônica Francisco, militante della causa nera e dal 2019 deputata socialista all’assemblea regionale di Rio. “Bisogna difendere le religioni afrobrasiliane; sono la matrice di questo paese, il riflesso della nostra diversità, della nostra storia”, afferma questa donna cordiale di 50 anni, nata nelle favelas della zona nord di Rio.

Ma i recenti successi sono per lo più simbolici, riconosce la deputata. “L’intolleranza si diffonde e minaccia di prevalere nella comunità evangelica. È necessario offrire un discorso alternativo a quello dei pastori che strumentalizzano la fede”, afferma preoccupata.

Nelle favelas il modello neopentecostale non attira solo il Tcp. “In tutti i gruppi criminali ormai ci sono dei trafficanti evangelici”, conferma la ricercatrice Christina Vital, che insegna all’università federale Fluminense e ha scritto Oração de traficante (2015), un libro sui legami tra religione e narcotraffico nelle favelas di Rio de Janeiro.

Il fallimento dello stato

In una metropoli sempre più in difficoltà, dove trafficanti e miliziani controllano metà del territorio, cioè quasi cinquecento quartieri e sette milioni di abitanti, “il rischio è che le religioni afrobrasiliane scompaiano del tutto”, avverte Márcio de Barú, 41 anni. Leader di un terreiro del “tranquillo” quartiere di Penha, anche lui ha subìto minacce e lanci di pietre. Sulla sua scrivania ornata da un merletto bianco ha messo delle piccole statuine di civette, simbolo di vigilanza.

“Tutto questo”, spiega, “è la conseguenza dell’assenza dello stato in questa città e nel paese, del fallimento della giustizia e della polizia. Di questo passo, ben presto saremo in balia dei nostri nemici. Ho già pensato di lasciare Rio, ma per andare dove?”.

Cominciati in questa metropoli, gli attacchi contro i luoghi sacri del candomblé si diffondono ormai in tutto il Brasile e toccano tutte le regioni, dal Nordeste alla frontiera argentina, fino a Salvador, cuore spirituale delle culture afrobrasiliane. “Non ci sentiamo sicuri da nessuna parte”, si preoccupa Márcio de Barú.

A Duque de Caxias Carla lascia a passo lento il suo terreiro martirizzato. La buona notizia è che di recente la polizia ha espulso i trafficanti dal quartiere. Riaprire i luoghi di culto? La donna ne sarebbe felicissima. “Ma molti dicono che i criminali si sono solo nascosti in attesa del momento favorevole per tornare”. Carla chiude di nuovo la vecchia porta blu, senza sapere quando la riaprirà. “Rio è diventata la capitale dell’intolleranza”, osserva con amarezza. ◆ adr

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1424 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati