Diwali, la festa delle luci che cade il 14 novembre e simboleggia la vittoria del bene sul male, si avvicina e gli indù si preparano a celebrare il trionfale ritorno di Rama nel suo regno (e il nuovo grandioso tempio che stanno costruendo per lui ad Ayodhya). Noialtri invece dobbiamo accontentarci di celebrare questa stagione di trionfi per la democrazia indiana. Tra le notizie di un’inquietante cremazione, la messa a tacere di un grande complotto e l’inizio di un altro, come non essere orgogliosi di noi stessi, dei valori antichi e moderni della nostra cultura e civiltà?
A metà settembre è arrivata la notizia di una ragazza dalit di 19 anni che ha subìto uno stupro di gruppo ed è stata mutilata e lasciata a terra da alcuni uomini della casta dominante nel villaggio di Hathras, nell’Uttar Pradesh. La sua è una delle quindici famiglie dalit (i fuoricasta) di un villaggio in cui le altre seicento famiglie sono in maggioranza bramine o thakur, la stessa casta di Ajay Singh Bisht, il primo ministro dell’Uttar Pradesh che si fa chiamare Yogi Adityanath (si dice che si stia preparando a sostituire il premier Narendra Modi nel prossimo futuro).
La ragazza era perseguitata e terrorizzata da tempo dai suoi aggressori. Lei e la famiglia erano consapevoli di ciò che le aspettava. Ma questo non le ha aiutate. La madre ha trovato la ragazza ricoperta di sangue nel campo dove portava le mucche a pascolare. Le avevano quasi tagliato la lingua, e la spina dorsale spezzata l’aveva lasciata paralizzata.
La ragazza è sopravvissuta per due settimane in ospedale. È morta la notte del 29 settembre. La polizia dell’Uttar Pradesh, dove nel 2019 quattrocento persone sono morte mentre erano in custodia – circa un quarto dei 1.700 casi simili registrati in tutta l’India –, ha portato via il corpo nel cuore della notte, è tornata al villaggio e ha chiuso in casa la famiglia traumatizzata, negando alla madre un ultimo saluto. E negandole anche la certezza che a essere cremato sia stato effettivamente il corpo della figlia. I familiari si sono stretti gli uni agli altri, chiaramente terrorizzati dall’attenzione dei mezzi d’informazione. Terrorizzati perché sapevano bene che, una volta spenti i riflettori, sarebbero stati puniti anche per quell’attenzione. Se riusciranno a sopravvivere, torneranno alla solita vita, vittime di una crudeltà e di un’umiliazione medievali che gli sono state inflitte nel villaggio dove il dominio medievale delle caste li considera intoccabili e subumani.
Il giorno dopo la cremazione, la polizia ha annunciato che la ragazza non era stata violentata. Era stata solo uccisa. Solo. Ecco l’inizio della procedura standard con cui il dato relativo alla casta viene rapidamente cancellato. I tribunali, le cartelle cliniche e i mezzi d’informazione non indipendenti probabilmente collaboreranno a questa graduale trasformazione di un’atrocità alimentata dall’odio di casta in uno dei tanti sfortunati crimini comuni. In altre parole, assolveranno la società indiana, la sua cultura e le sue pratiche sociali. L’abbiamo visto succedere molte volte. Per riportare l’India al suo glorioso passato, come promette il Bharatiya janata party (Bjp, al governo) in vista delle prossime elezioni, noi indiani non dovremmo dimenticare di votare per Ajay Singh Bisht. O per il politico a lui più vicino che tormenta i musulmani e odia i dalit. Dovremo ricordarci di mettere “mi piace” al prossimo video di un linciaggio caricato sul web e continuare a guardare il nostro conduttore tv preferito che vomita veleno perché è il custode della coscienza collettiva dell’India. Inoltre, dovremmo essere grati del fatto che possiamo ancora votare, che viviamo nella più grande democrazia del mondo e che, a differenza di quelli che ci piace chiamare gli “stati falliti” a noi vicini, in India abbiamo tribunali neutrali che giudicano secondo la legge.
Allucinazione collettiva
Solo poche ore dopo quella vergognosa, orribile cremazione, la mattina del 30 settembre un tribunale speciale ha dato una palese dimostrazione di questa neutralità. Dopo 28 anni di attenta riflessione ha assolto tutte e 32 le persone che erano state accusate di aver complottato per demolire la moschea di Babri nel 1992, un evento che ha cambiato il corso della storia dell’India moderna. Tra gli assolti c’erano un ex ministro dell’interno, un ex rappresentante del governo e un ex primo ministro. In effetti, sembra che nessuno abbia demolito la moschea di Babri. Almeno non per la legge. Forse la moschea si è demolita da sola. Forse, tanti anni fa, ha scelto quel giorno per ridursi in polvere, per sgretolarsi sotto la forza della volontà dei teppisti dalla sciarpa zafferano (il colore dei nazionalisti indù) che si definivano devoti e si erano radunati lì quel giorno. Si è scoperto che i video e le fotografie, che tutti abbiamo visto, degli uomini che abbattevano le cupole dell’antica moschea, le testimonianze che abbiamo letto e ascoltato, le notizie che hanno riempito i mezzi d’informazione nei mesi successivi erano frutto della nostra immaginazione. Il Rath yatra, il corteo di carri che seguiva Lal Krishna Advani, allora ministro dell’interno, quando viaggiava in lungo e in largo per l’India su un camion scoperto esortando i veri indù a raggiungere Ayodhya e partecipare alla costruzione di un tempio dedicato a Rama nel punto esatto in cui si trovava la moschea, tutto questo non è mai realmente accaduto. Nemmeno la morte e la distruzione che il corteo ha lasciato sulla sua scia. Nessuno intonava Ek dhakka aur do, Babri masjid tod do (Dai un altro colpo e distruggi la moschea di Babri). Stavamo vivendo un’allucinazione collettiva a livello nazionale. Cosa stavamo fumando tutti?
Il giudice del tribunale speciale ha scritto una sentenza dettagliata di 2.300 pagine sul fatto che non c’era alcun piano per distruggere la moschea. Una bella impresa, ammettiamolo: 2.300 pagine sull’assenza di un piano. Dice che non esistono prove per poter affermare che gli imputati si siano incontrati “in una stanza” per pianificare la demolizione. Forse è perché è successo fuori da una stanza, nelle nostre strade, nelle riunioni pubbliche, sui nostri schermi televisivi perché tutti noi guardassimo e partecipassimo?
Un altro complotto
A ogni modo, della congiura contro la moschea di Babri ormai non si parla più. Ora va di moda un altro complotto, quello dietro al recente massacro di New Delhi, in cui sono state uccise 53 persone (delle quali quaranta musulmane) e ne sono state ferite 581, nei quartieri popolari della parte nordest della capitale. Sono stati specificamente presi di mira cimiteri, moschee e madrase. Case, negozi e attività commerciali, per la maggior parte di musulmani, sono state incendiate e rase al suolo. Nel caso di questo complotto, il verbale di accusa di migliaia di pagine della polizia di New Delhi contiene perfino la foto di alcune persone sedute attorno a un tavolo – sì, in una stanza, una specie di seminterrato – che tramano. Si vede chiaramente dalla loro espressione che stanno tramando. Inoltre, ci sono frecce che le accusano, le identificano, ci dicono i loro nomi. È devastante. Molto più allarmante di quegli uomini con le mazze sulla cupola della mosche di Babri. Alcune delle persone sedute intorno al tavolo sono già in prigione. Le altre, probabilmente, lo saranno presto. Per arrestarle sono bastati pochi mesi. Le assoluzioni, se possiamo basarci sulla sentenza di Babri, potrebbero richiedere anni, forse 28, chi lo sa.
Secondo l’Uapa, la legge sulla prevenzione delle attività illegali in base a cui sono stati accusati, quasi tutto è reato, compresi i pensieri antinazionalisti. Spetta a te provare la tua innocenza. Più leggo di questa storia e di come opera la polizia, più mi sembra che sia come chiedere a una persona sana di mente di dimostrare la sua sanità mentale a una commissione di pazzi. La congiura di New Delhi, ci viene chiesto di credere, è stata ordita da studenti e attivisti musulmani, gandhiani e “di sinistra” che stavano protestando contro l’entrata in vigore del Registro nazionale della popolazione, del Registro nazionale della cittadinanza e dell’Emendamento alla legge sulla cittadinanza, che messi insieme pensavano avrebbero messo in grande difficoltà la comunità musulmana e i poveri che non hanno “documenti di famiglia”. Lo penso anch’io. E credo che se il governo deciderà di portare avanti quel progetto, le proteste ricominceranno. Com’è giusto che sia.
Secondo la polizia, i cospiratori di New Delhi volevano mettere in imbarazzo il governo indiano provocando uno scontro sanguinoso tra comunità durante la visita del presidente statunitense Donald Trump a febbraio. I non musulmani citati nel documento sono accusati di aver complottato per dare alle proteste un “colore laico”. Le migliaia di musulmane che guidavano i sit-in e le manifestazioni sono accusate di essere state “coinvolte” per dare alle proteste una “copertura di genere”. Tutto lo sventolare di bandiere e le letture pubbliche del preambolo alla costituzione indiana, e la valanga di poesia, musica e amore che hanno segnato quelle proteste, sono stati liquidati come una sorta di farsa per mascherare intenzioni malevole. In altre parole, il fulcro della protesta sarebbe stato jihadista (e maschile), il resto era solo decorazione.
Umar Khalid, un giovane studioso che conosco bene e che da anni è perseguitato e diffamato dai mezzi d’informazione, secondo la polizia sarebbe uno dei principali congiurati. Le prove che ha raccolto contro di lui, dice, riempiono più di un milione di pagine (questo è lo stesso governo che ha dichiarato di non avere dati sui dieci milioni di lavoratori che a marzo hanno dovuto percorrere a piedi centinaia di chilometri per tornare nei loro villaggi quando Modi ha annunciato il lockdown più crudele al mondo e di non avere nessuna idea di quanti siano morti a causa dell’infezione, quanti di fame e quanti si siano ammalati). Dal milione di pagine è escluso il video delle telecamere di sicurezza della stazione della metropolitana di Jafrabad – il sito del suo presunto complotto e della provocazione – che gli attivisti già il 25 febbraio, mentre le violenze ancora infuriavano, avevano chiesto all’alta corte di New Delhi di conservare e che è stato inspiegabilmente cancellato. Ora Umar Khalid è in prigione insieme a centinaia di altri musulmani arrestati di recente. Quante vite ci vorranno perché i tribunali e gli avvocati riescano a leggere un milione di pagine di “prove”?
Come la moschea di Babri si è demolita da sola, nella versione della polizia del massacro di New Delhi i musulmani hanno complottato per uccidersi, bruciare le moschee, distruggere le loro case, rendere orfani i propri figli, tutto per far vedere a Trump quanto soffrono in India. Per sostenere la sua tesi, la polizia ha allegato al verbale di accusa centinaia di pagine di conversazioni WhatsApp tra studenti, attivisti e gruppi che li sostengono, che stavano cercando di coordinare le decine di siti di protesta e sit-in pacifici spuntati a New Delhi. Non potrebbero essere più diverse dalle conversazioni WhatsApp di un gruppo che si fa chiamare Kattar hindu ekta, Unità integralista indù, i cui associati si vantano di aver ucciso dei musulmani e lodano apertamente i leader del Bjp. Questo fa parte di un verbale di accusa separato.
Le conversazioni tra studenti e attivisti trasudano grinta e determinazione, come accade quando i giovani, spinti da un senso di giusta rabbia, esprimono le loro opinioni. Leggerle è energizzante e ti riporta a quegli inebrianti giorni prima della pandemia e all’emozione di guardare una nuova generazione entrare in scena. Di volta in volta, attivisti più esperti erano intervenuti per calmarli. Avevano litigato tra loro sull’opportunità di andare o meno a fare un chakka jam, un blocco stradale, nella zona nordest della capitale. Alcuni sostenevano che bloccare le strade sarebbe stato controproducente, temevano che avrebbe alimentato la rabbia dei sostenitori del Bjp, sconfitto alle recenti elezioni locali, e diretto la violenza contro di loro. Sapevano che se lo fanno gli agricoltori o anche i dalit è una cosa, se lo fanno i musulmani un’altra. Questa è la realtà in India oggi. Altri sostenevano che, se le strade non fossero state bloccate, i manifestanti sarebbero stati ignorati. Alla fine, in alcuni luoghi delle proteste le strade sono state bloccate. E, come previsto, questo ha dato alle folle armate di vigilanti indù l’opportunità che stavano cercando.
◆ Il 6 dicembre 1992 il Bharatiya janata party (Bjp, oggi al governo) e un’associazione nazionalista indù organizzarono una manifestazione ad Ayodhya, nell’Uttar Pradesh, per sostenere la costruzione di un tempio dedicato a Rama, che per la tradizione indù sarebbe nato dove dal sedicesimo secolo sorgeva la moschea di Babri. La folla demolì la moschea e per mesi in tutta l’India ci furono scontri violenti tra indù e musulmani. Morirono duemila persone, in gran parte musulmani. Nel novembre 2019 la corte suprema ha stabilito che al posto della moschea può essere costruito un tempio indù. Il 30 settembre 2020 le 32 persone accusate di aver cospirato per far abbattere la moschea, sono state assolte. Tra loro c’è anche il cofondatore del Bjp Lal Krishna Advani, allora ministro dell’interno. Bbc
Nei giorni successivi hanno scatenato una brutalità da togliere il fiato. Alcuni video hanno dimostrato che erano apertamente sostenuti e aiutati dalla polizia. I musulmani hanno reagito. Vite e proprietà sono andate perdute da entrambe le parti. Ma non nello stesso modo. Non possono essere considerate equivalenti. Alla violenza è stato permesso di gonfiarsi e diffondersi. Abbiamo assistito increduli allo spettacolo di giovani musulmani gravemente feriti che giacevano a terra circondati dalla polizia che li costringeva a cantare l’inno nazionale. Uno di loro è morto poco dopo.
Centinaia di chiamate di soccorso sono state ignorate. Quando gli incendi dolosi e i massacri si sono calmati e le centinaia di denunce sono state finalmente accolte, le vittime hanno affermato che la polizia le ha costrette a eliminare dalle denunce i nomi e le identità dei loro aggressori e gli slogan intonati dalle folle armate di fucili e spade. Denunce specifiche sono state trasformate in denunce generiche per proteggere i colpevoli. Ma potrebbero volerci anni per stabilire l’innocenza degli attivisti. Nel frattempo, diversi resoconti di mezzi d’informazione indipendenti, rapporti di cittadini e organizzazioni per i diritti umani, inclusa Amnesty international, hanno accusato la polizia di complicità nelle violenze. Da allora Amnesty è stata incolpata di irregolarità finanziarie e i suoi conti bancari sono stati congelati. Ha dovuto chiudere i suoi uffici e licenziare tutti i suoi 150 dipendenti in India.
Quando le cose cominciano a peggiorare, i primi ad andarsene o a doversene andare sono gli osservatori internazionali. In quali paesi lo abbiamo già visto succedere? Pensateci. L’India vuole un posto permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu, vuole avere voce in capitolo negli affari mondiali. Ma vuole anche essere uno dei cinque paesi al mondo che non ratificherà la convenzione internazionale contro la tortura. Vuole essere una democrazia monopartitica (un ossimoro) senza assumersi nessuna responsabilità.
Il vero scopo dell’assurdo complotto di New Delhi è arrestare chi dissente. Non è solo un modo per cancellare gli orrori del passato e del presente, ma anche per preparare la strada per ciò che deve ancora venire. Suppongo che dovremmo essere grati per il milione di pagine di prove raccolte e per le duemila pagine di sentenze. Perché sono la prova che la carcassa della democrazia viene ancora trascinata in giro. Non è stata ancora cremata e ha ancora il suo peso, rallenta le cose. Non è lontano il giorno in cui sarà gettata in mare e il processo diventerà più spedito. Lo slogan inespresso di chi governa l’India potrebbe essere Ek dhakka aur do, ancora un altro colpo, Democracy gaad do, seppellisci la democrazia. Quando quel giorno arriverà, la morte di 1.700 persone in custodia della polizia sembrerà un roseo ricordo del nostro recente e glorioso passato.
Continuiamo a votare per le persone che ci stanno conducendo alla miseria e alla guerra, smembrandoci un arto dopo l’altro. ◆ bt
Arundhati Roy è una scrittrice indiana. In Italia ha pubblicato Azadi. Libertà, fascismo, fiction all’epoca del Coronavirus (Guanda 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1379 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati