“Un vero professionista nel suo campo e un buon mentore”, si legge sull’annuncio funebre di Akmal Shergoziev, che dirigeva il dipartimento regionale dell’azienda fornitrice di gas nel sud dell’Uzbekistan. Shergoziev è morto a 54 anni all’inizio di ottobre. Nel breve messaggio del suo datore di lavoro, la Hududgaz Kashkadarya, la causa del decesso non è menzionata. Ma l’edizione uzbeca di Radio Free Europe/Radio Liberty (Ozodlik) dice che è stato vittima della mobilitazione di massa per la raccolta del cotone imposta dal governo. Shergoziev ha avuto un incidente d’auto mentre in piena notte tornava a casa dalla sede operativa straordinaria, una delle tante create nella stagione del raccolto. “Il khokim (capo) del distretto di Nishan, Botir Togaev, aveva indetto una riunione, finita a mezzanotte. Shergoziev ha avuto un incidente d’auto mentre tornava a casa con il capo del dipartimento catastale distrettuale Kholmat Rasulov”, ha dichiarato a Ozodlik una fonte dell’amministrazione distrettuale. “Guidava Shergoziev. Doveva essere stanco, si è addormentato al volante e la macchina è caduta in un fosso pieno d’acqua. Rasulov è riuscito ad aprire la portiera e a scendere dall’auto. La portiera di Akmal non si è aperta”.
Alla fine di settembre il presidente uzbeco Shavkat Mirziyoyev ha dichiarato lo stato d’emergenza per dieci giorni con l’obiettivo di organizzare la campagna di raccolta del cotone. I funzionari locali hanno cominciato a mandare nei campi tutte le persone disponibili: dipendenti delle aziende municipali, insegnanti e medici. “Ogni sera il khokim del distretto di Nishan teneva una riunione e chiedeva al capo di ogni ente statale: ‘Quante persone hai mandato a raccogliere il cotone?’. Mirziyoyev si vantava di aver abolito il lavoro forzato. Ma è stato proprio lui a ordinare la creazione del quartier generale d’emergenza”, ha detto un dipendente di un ente pubblico. “Non c’è modo di sbarazzarci della maledizione del cotone”.
Mirziyoyev è salito al potere nel 2016, dopo la morte del primo presidente dell’Uzbekistan indipendente, Islam Karimov. Nei primi anni del suo governo aveva più volte promesso che i cittadini non sarebbero più stati costretti a raccogliere il cotone. Aveva promulgato leggi speciali e nel 2023 era intervenuto all’Assemblea generale dell’Onu affermando che il lavoro forzato e minorile nelle piantagioni di cotone era ormai stato debellato. Qualche anno dopo, però, la situazione è tornata al punto di partenza. È cambiata la forma, ma non la sostanza: ora si dice “partecipazione volontaria”, “sede operativa straordinaria”, “ordini orali”.
“Vivo nel distretto di Alat. Gli insegnanti, i tecnici e i collaboratori scolastici raccolgono tutti cotone. Perché è un ordine ‘dall’alto’”, racconta un insegnante. In caso di controlli, bisogna dire che si è andati alla raccolta di propria volontà e che non si ha un altro lavoro”.
Il cotone è una delle colture chiave del settore agricolo uzbeco. Secondo i dati ufficiali, nel 2025 ne sono stati seminati 875mila ettari. In buona parte si tratta di varietà cinesi, la cui raccolta, come ha spiegato Abdurashid Isroilov, responsabile della gestione del fondo di sostegno statale per l’agricoltura, non deve subire ritardi. Forse questo spiega “l’emergenza”.
L’ispettorato statale del lavoro ha individuato solo poche decine di casi di lavoro forzato. I funzionari parlano di 74 violazioni. Ma gli analisti sono convinti che gli episodi siano molti di più. “Nel settore del cotone dei paesi dell’Asia centrale non ci sono state vere riforme, quindi un ritorno alla pratica del lavoro forzato è inevitabile”, dice Alisher Ilkhamov, fondatore del centro di ricerca Central Asia due diligence, che ha sede nel Regno Unito. “Rispondendo alle critiche delle organizzazioni internazionali rivolte all’Uzbekistan, Mirziyoyev ha riconosciuto l’esistenza del problema e ha promesso di risolverlo. Ma alla fine è cambiato poco: hanno semplicemente aumentato la paga per la raccolta e ordinato di smettere di spedire nei campi troppi impiegati pubblici e studenti. Ma il sistema economico è immutato. La gestione del settore del cotone è fortemente centralizzata e il ricorso alla coercizione è inevitabile”.
Finiti all’estero
In Asia centrale il cotone è coltivato anche in Turkmenistan e Tagikistan, e non in modo volontario. Il piano annuale del Turkmenistan prevede la raccolta di 1,25 milioni di tonnellate, una cifra invariata da anni. Il paese è tra i dieci maggiori produttori mondiali, vende cotone grezzo e prodotti finiti all’estero e circa il 60 per cento dei tessuti viene esportato. I principali consumatori di cotone turcmeno sono la Turchia, la Russia e la Cina. I tessuti in cotone sono esportati anche in Europa.
Nel 2024 un camion che trasportava un gruppo di scolari per mandarli alla raccolta di cotone ha avuto un incidente. Tre sono rimasti feriti
Il governo di Aşgabat resta un aperto sostenitore del lavoro forzato nel settore del cotone e non ha intenzione di rinunciarci. Radio Azattyk, l’edizione turcmena di Rfe/Rl, riferisce puntualmente dell’invio in massa di dipendenti pubblici nei campi di cotone. Quest’anno sono arrivati anche militari, ex detenuti, cittadini in libertà vigilata e perfino chi non paga gli assegni di mantenimento per gli alimenti (questa notizia ha coinciso con la decisione degli Stati Uniti di escludere il Turkmenistan dalla lista dei paesi che incoraggiano il lavoro forzato).
“Nella provincia di Balkan sono stati reclutati con la forza i lavoratori del settore sanitario, delle comunicazioni e dei trasporti, compresi i tassisti. Lavorano gratuitamente”, ha riferito il corrispondente di Azattyk il 3 ottobre. Secondo le testimonianze raccolte, il problema è peggiorato. “La differenza rispetto al 2024 è che i dipendenti pubblici sono costretti a raccogliere cotone gratuitamente. Le autorità locali li costringono a farlo nei fine settimana con il pretesto che ricevono già lo stipendio dallo stato”, ha riferito una fonte. Le proteste nel paese si sono ridotte a zero. Tutti accettano di lavorare alla raccolta del cotone per paura di perdere il lavoro o di ricevere minacce. Le organizzazioni internazionali per i diritti umani criticano da anni la politica di Aşgabat e chiedono la fine del lavoro forzato.
Per contro, da alcuni anni in Tagikistan è vietato mandare gli scolari a raccogliere il cotone. Il ministero dell’istruzione ha perfino affermato che il coinvolgimento minorile nei lavori pesanti viola i loro diritti e interferisce con l’apprendimento. Quest’anno, tuttavia, sono arrivate segnalazioni secondo cui scolari, studenti e insegnanti sono stati inviati a lavorare nelle piantagioni nel sudovest del paese, nonostante il divieto. Ozodi, l’edizione tagica di Rfe/Rl, riporta che l’amministrazione del distretto di Kushoniyon ha obbligato molte scuole a inviare studenti e personale nei campi, scrivendo come al solito: “Nel tempo libero dalle attività scolastiche”. Secondo Ozodi, la circolare è stata inviata a scuole elementari, superiori, università ed enti pubblici.
Il canale televisivo locale Khatlon ha riferito che più di mille studenti dell’università statale Bokhtar e degli istituti superiori sono andati volontariamente a raccogliere il cotone. Tuttavia, due docenti universitari, che hanno voluto restare anonimi, hanno dichiarato a Ozodi di essere stati obbligati. “È arrivata una circolare che ordinava a tutti gli insegnanti e agli studenti di andare nei campi il sabato e la domenica. Non andarci significa rischiare di avere problemi”, ha detto uno di loro. Il video, pubblicato sulla pagina del Partito democratico popolare del Tagikistan, riferita al distretto di Hamadoni, mostra che anche gli scolari sono inviati a raccogliere il cotone.
Queste pratiche, radicate nel passato sovietico, sono state a lungo criticate perché costituiscono una forma di lavoro forzato, soprattutto nel caso dei minori. Il 19 settembre l’agenzia Asia-Plus ha riferito che nella regione di Sughd anche gli scolari e gli insegnanti vanno nei campi, perfino durante l’orario scolastico. In seguito, il dipartimento regionale dell’istruzione ha affermato che “gli insegnanti partecipano volontariamente”, ma senza menzionare i bambini. Questa “mobilitazione” non solo viola il diritto all’istruzione, ma può anche essere pericolosa. Nel novembre 2024 un camion che trasportava un gruppo di scolari per mandarli a raccogliere cotone a Bobojon, nel distretto di Ghafurov, ha avuto un incidente. Tre bambini sono rimasti gravemente feriti.
Coalizione internazionale
Le campagne dei gruppi per i diritti umani contro l’uso del lavoro forzato e minorile nel settore del cotone in Uzbekistan avevano portato a un boicottaggio del prodotto uzbeco nel 2006. L’appello della coalizione internazionale Cotton campaign era stato sostenuto da 331 marchi, tra cui Adidas, Zara, C&A, Gap, H&M, Levi Strauss, Tesco e Walmart. Nel 2022 la Cotton campaign ha annunciato la fine del boicottaggio perché, secondo i risultati del rapporto del Forum tedesco-uzbeco per i diritti umani, con sede a Berlino, non era stato rilevato l’uso sistematico di lavoro forzato durante la raccolta del 2021.
Per il Tagikistan e il Turkmenistan la situazione è un po’ diversa. Nel 2010 gli Stati Uniti hanno inserito nella lista nera i prodotti in cotone tagico. Pochi anni dopo era stato bandito anche il cotone turcmeno. Nel 2016 le grandi aziende di abbigliamento hanno espresso preoccupazione per l’uso del lavoro forzato in Turkmenistan. La catena svedese H&M ha rifiutato di comprare cotone turkmeno. Nel maggio 2018 gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di tutti i tipi di cotone dal Turkmenistan e dei prodotti provenienti da qualsiasi paese nella cui produzione siano state usate materie prime turcmene. Il divieto è ancora in vigore.
Perché il boicottaggio del cotone dell’Asia centrale non aiuta a risolvere il problema del lavoro forzato e di quello minorile nelle coltivazioni della regione? “Nei primi dieci anni del duemila la mobilitazione forzata dei cittadini era fatta alla luce del sole: studenti, medici, insegnanti erano prelevati in massa per raccogliere il cotone. E questo ha permesso di raccogliere prove, fare foto, lanciare appelli e costruire una strategia per una campagna internazionale”, spiega ad Azattyk Asia Nade Ataeva, direttrice dell’Associazione per i diritti umani in Asia centrale. “Ora i governi, in particolare quello uzbeco e in parte quello tagico, sfruttano altri metodi: la dipendenza degli agricoltori dalle quote di acquisto statali, le difficoltà economiche e amministrative dei lavoratori, la commercializzazione sotto il controllo di aziende affiliate”. In questo modo, continua Ataeva, “il lavoro forzato è fatto passare per necessità economica e i tradizionali meccanismi con cui viene smascherato non funzionano più. La Cotton campaign, che ha svolto un ruolo cruciale durante il boicottaggio del cotone uzbeco, è ormai in una fase di stallo, dopo che il boicottaggio è stato ufficialmente revocato nel 2022”. Il problema sta anche nel fatto che le catene di fornitura sono diventate più complicate ed è sempre più difficile stabilire l’origine del cotone. “Prima il boicottaggio funzionava perché il cotone veniva esportato grezzo e i marchi potevano rifiutare di comprarlo. Ora l’Uzbekistan lavora quasi tutto il cotone all’interno del paese e il Turkmenistan e il Tagikistan esportano attraverso paesi terzi: la Turchia, la Cina, gli Emirati Arabi Uniti. I prodotti finali – tessuti, filati, abiti confezionati – perdono la traccia geografica della loro origine”, spiega l’attivista.
◆ La coltivazione del cotone in Asia centrale e in particolare in Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan è diffusa fin dall’epoca zarista e diventò intensiva ai tempi dell’Unione Sovietica. Ancora oggi è uno dei comparti più importanti dell’economia della regione, grazie a una produzione destinata in gran parte all’esportazione. Ma oltre ai problemi del lavoro forzato e di quello minorile, la coltivazione del cotone pone seri rischi per l’ambiente a causa dell’enorme consumo di acqua. L’attività è all’origine del disastro del lago d’Aral, situato tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, un tempo il quarto lago più grande del mondo. Per irrigare i campi si usavano le acque dei suoi affluenti, ma ormai il bacino si è ridotto del 90 per cento e al suo posto si è formato il deserto salato di Aralkum, un’area contaminata dai pesticidi che defluivano dalle piantagioni e che oggi il vento solleva in forma di polvere tossica. Oggi, inoltre, la crisi idrica legata alla cattiva gestione delle risorse è aggravata dal cambiamento climatico che colpisce duramente l’Asia centrale. Polityka
Secondo Alisher Ilkhamov per risolvere il problema del lavoro forzato nelle piantagioni bisogna riformare il sistema dell’industria del cotone e introdurre i princìpi dell’economia di mercato. “È necessario dare libertà assoluta agli agricoltori, in modo che possano decidere da soli cosa coltivare nel loro campo. Se pensano che sia giusto coltivare il cotone, che lo facciano. Siano loro a decidere a chi venderlo, contrattando i prezzi. E se un anno credono che i prezzi mondiali siano sfavorevoli e non vogliono coltivare e vendere cotone, devono essere liberi di scegliere qualcos’altro di più redditizio. Funziona così l’economia di mercato. Ma finché non sarà adottata, la pratica del lavoro forzato non sparirà”, dice Ilkhamov.
Ataeva pensa che nella lotta contro il lavoro forzato e minorile non serva il boicottaggio, ma la responsabilità. “Gli strumenti per combattere lo sfruttamento dovrebbero basarsi sui requisiti di trasparenza aziendale, sulle sanzioni internazionali contro le aziende statali che ricattano i propri dipendenti, sull’inclusione dei diritti dei lavoratori negli accordi commerciali, su un sistema di controllo e certificazione indipendenti”, afferma l’attivista.
Allo stesso tempo Ataeva sostiene che gli attivisti per i diritti umani sono comunque riusciti a suscitare nelle autorità una “sindrome da vulnerabilità alla critica”: in Uzbekistan “il regime ha paura di essere criticato; in Turkmenistan la critica non è tollerata; in Tagikistan le autorità hanno imparato a fingere di ascoltare senza cambiare niente nella sostanza. In Asia centrale la fobia del potere per le critiche esiste, ma prende forme diverse: dal timore di danneggiare la propria reputazione alla totale impunità”, conclude Ataeva. ◆ ab
Radio Azattyq è il servizio in lingua russa per l’Asia centrale di Radio Free Europe/Radio Liberty che ha sede a Praga, nella Repubblica Ceca.
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Questo articolo è uscito sul numero 1645 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati