Resta un alone di mistero intorno alla morte di Luca Attanasio, ambasciatore d’Italia presso la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi il 22 febbraio 2021 insieme all’autista Mustapha Milambo. Stavano viaggiando con un convoglio del Programma alimentare mondiale (Pam), agenzia delle Nazioni Unite, in una provincia nordorientale del paese, al confine con il Ruanda. Due anni e mezzo dopo quel tragico giorno restano aperte molte domande sulle responsabilità e perfino sulle circostanze dell’attacco che ha portato a quei tre omicidi. Ma oggi perfino il processo che potrebbe stabilire qualche verità su quei fatti sembra in pericolo.

Il 14 settembre presso il tribunale di Roma il giudice delle udienze preliminari valuterà se processare Rocco Leone, funzionario del Pam, con l’accusa di omicidio colposo. È l’esito dell’istruttoria condotta dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, che ha chiesto il rinvio a giudizio per Leone e un altro dipendente del Pam, Mansour Rwagaza (la cui posizione è stata però stralciata perché irreperibile). Secondo l’accusa avrebbero omesso “per negligenza, imprudenza e imperizia … ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica” dei partecipanti alla missione.

Il caso però rischia di non arrivare mai in aula. La difesa del funzionario del Pam infatti ha invocato l’immunità. Lo scudo legale non è automatico, e in effetti nella fase istruttoria non era stato accordato. Ora sta ai giudici decidere se c’è un motivo valido per esentare Leone da un processo.

Intanto però il governo italiano non ha chiesto di costituirsi parte civile, come ci si aspetterebbe nel processo per la morte di due servitori dello stato. Perché? Durante l’ultima udienza preliminare, a luglio, sono state accettate come parti civili la famiglia Iacovacci e il comune di Limbiate (dove era nato l’ambasciatore); la famiglia Attanasio ha rinunciato, accettando invece il risarcimento del Pam. Ma nessun rappresentante del governo era presente. “L’assenza dello stato non è passata inosservata”, si legge nella lettera inviata ai mezzi di informazione da un gruppo di attivisti italiani e congolesi riuniti nell’associazione Amici di Luca Attanasio, tra cui il padre dell’ambasciatore ucciso. Gli amici e la famiglia temono che l’attenzione sul caso si spenga prima che le domande trovino risposte. “Si tende a relegare l’accaduto nell’ambito dei fatti di cronaca”, continua la lettera. Ma “l’omicidio di un ambasciatore in missione è un fatto politico”.

Una missione difficile

Per capire conviene ricordare i fatti, o almeno quello che sappiamo. Quel lunedì 22 febbraio 2021 l’ambasciatore Attanasio e la sua guardia del corpo, il carabiniere Iacovacci, viaggiavano su un convoglio di due veicoli del Pam partiti da Goma, capoluogo del Nord Kivu. Erano diretti a nord sulla strada nazionale RN2, che costeggia la frontiera con il Ruanda al limitare del parco nazionale dei monti Virunga: Attanasio aveva accettato l’invito a visitare un progetto umanitario del Pam, che aveva organizzato la visita. Nel primo veicolo c’erano il responsabile della sicurezza del Pam Mansour Rwagaza e il responsabile del sito che andavano a visitare; nel secondo, insieme all’ambasciatore e al carabiniere c’era Rocco Leone, vicedirettore del Pam nella Repubblica Democratica del Congo.

Il convoglio è stato bloccato a una quindicina di chilometri da Goma da sette uomini armati di kalashnikov. Hanno colpito e ucciso l’autista Mustapha Milambo ancora all’interno dell’auto, poi hanno portato gli altri lungo un sentiero verso la boscaglia.

Qui la successione dei fatti è meno chiara. Un’ipotesi è che gli assalitori abbiano sparato, colpendo Attanasio e Iacovacci, che si era buttato a fargli da scudo; richiamati dagli spari sono accorsi i ranger del parco, da una postazione a mezzo chilometro di distanza. Oppure la sparatoria è scoppiata proprio perché erano intervenute le guardie, bloccando un tentativo di rapimento a scopo di estorsione. In ogni caso, gli assalitori si sono dileguati. Attanasio e Iacovacci sono rimasti a terra, il carabiniere morto e l’ambasciatore ferito: portato all’ospedale delle Nazioni Unite a Goma è morto poco dopo. Sembra che altri addetti del Pam siano rimasti feriti e soccorsi da veicoli di passaggio; Rocco Leone e altri sono riusciti a mettersi in salvo nelle case del vicino villaggio.

Questa ricostruzione è basata in gran parte proprio sulla testimonianza di Leone e degli altri addetti del Pam sopravvissuti all’attacco, sentiti più tardi dagli inquirenti. L’autopsia condotta in seguito al policlinico Gemelli di Roma ha confermato che Attanasio e Iacovacci sono stati raggiunti da molteplici colpi.

I mezzi d’informazione locali in quei giorni hanno riferito che secondo diversi testimoni gli assalitori indossavano divise militari, poi si sarebbero cambiati per confondersi con la popolazione. E si è scritto che in quel luogo non agiscono milizie, anzi ci sono numerose postazioni militari – anche se la situazione può cambiare in fretta. Inoltre quel giorno era stata dichiarata un’allerta di sicurezza e molti militari erano stati richiamati a Goma, lasciando sguarnita la strada (sono testimonianze riprese da Matteo Giusti nel libro Il caso Attanasio, morte di un ambasciatore (2021). Un’allerta di sicurezza: possibile che gli addetti dell’Onu a Goma non ne fossero informati?

Le autorità congolesi hanno infine accusato sei uomini, presentati come una banda criminale che non voleva uccidere, ma rapire l’ambasciatore per ottenere un riscatto

Quella stessa mattina il governatore del Nord Kivu ha parlato di un tentativo di rapimento a scopo di estorsione e ha accusato il Fronte democratico per la liberazione del Ruanda (Fdlr), uno dei gruppi armati che si contendono il territorio in quella provincia orientale, e questa resta la tesi del governo congolese. L’Fdlr ha smentito; in un comunicato sostiene che “è stata un’esecuzione pianificata” e accusa l’esercito ruandese.
Sul triplice omicidio hanno aperto indagini le autorità congolesi e la procura della repubblica di Roma, mentre il Pam ha condotto un’indagine interna.

Le autorità congolesi hanno infine accusato sei uomini, presentati come una banda criminale che non voleva uccidere, ma rapire l’ambasciatore per ottenere un riscatto. In marzo un tribunale militare ha processato cinque di loro (il sesto è latitante) e il 6 aprile scorso li ha condannati in primo grado all’ergastolo: la corte aveva chiesto la pena capitale, ma ha optato per la prigione a vita su richiesta delle autorità italiane e delle famiglie Attanasio e Iacovacci. Il processo non ha fatto emergere novità né sulla dinamica né su eventuali mandanti. Anzi, in aula gli imputati hanno ritrattato le confessioni fatte all’arresto, dicendo che erano state estorte con la tortura.

Anche la procura di Roma ha subito avviato la sua indagine. In missione a Kinshasa gli investigatori del Ros (il corpo investigativo speciale dei carabinieri) hanno interrogato Rocco Leone e altri funzionari del Pam, oltre a sentire Zakia Seddiki Attanasio, la vedova dell’ambasciatore. Non sono andati sul luogo dei fatti per motivi di sicurezza, è stato detto; quindi non hanno visto il posto dell’attacco né ispezionato i veicoli né sentito testimoni locali.

Infine c’è l’indagine interna condotta dal dipartimento delle Nazioni Unite per la sicurezza (Undss), che ha mandato sul luogo una fact-finding mission, una missione informativa. Questa ha consegnato le sue conclusioni alle autorità italiane, informa un comunicato del Pam del 19 marzo 2021: “Devono restare confidenziali perché contengono informazioni personali sensibili e per proteggere le indagini in corso”. Il Pam non rilascia altri commenti.

L’accusa formulata dal pubblico ministero Colaiocco si basa su quel rapporto e afferma che Leone e Rwagaza “hanno omesso di adempiere ai doveri loro imposti dai protocolli di sicurezza dell’Onu e del Pam”, “non provvedendo a segnalare la missione almeno settantadue ore prima” e “indicando al posto dei nominativi dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci quelli di due dipendenti del Pam così da indurre in errore gli uffici locai del dipartimento di sicurezza delle Nazioni Unite”. Inoltre, prosegue l’accusa, non hanno informato per tempo la Monusco, la “forza di stabilizzazione” dell’Onu dispiegata nella regione, “che fornisce indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta armata e veicoli corazzati)”.

Le guerre del Kivu

“Scoprire cosa è successo è importante anche per i congolesi”, dice Pierre Kabeza, sindacalista originario di Bukavu nel Sud Kivu, ora residente in Italia: è tra i cofondatori dell’associazione Amici di Luca Attanasio. “Anche i congolesi in quella zona vengono uccisi ogni giorno. Cercare la verità sulla morte dell’ambasciatore significa anche fare luce sulla guerra del Kivu”.

Sull’omicidio di Luca Attanasio “è necessaria un’inchiesta internazionale”, titolava in quei giorni Nigrizia, mensile dei missionari comboniani specializzato sull’Africa: perché, argomentava, quelle province orientali “sono lontane dal controllo del governo di Kinshasa, … scarsamente governate, e oggetto di attenzioni dei vicini Ruanda e Uganda”. E concludeva: “Con tutte le debolezze che si porta dietro è improbabile che [il presidente] Tshisekedi mantenga quello che ha promesso per dipanare la vicenda dell’ambasciatore Luca Attanasio”.

Già: le province orientali dell’Rdc sono il teatro di un conflitto che va avanti dagli anni novanta del secolo scorso. Hanno subìto i contraccolpi del genocidio in Ruanda, l’arrivo di un milione di profughi, lo sconfinamento delle milizie hutu. Da qui sono partite le due guerre che hanno sconvolto il paese negli anni successivi: la prima, nel 1996, quando un’armata di ribelli sostenuta da Ruanda e Uganda e guidata dal vecchio oppositore Laurent Kabila ha marciato su Kinshasa rovesciando il dittatore Mobutu, ormai abbandonato dai suoi sostenitori occidentali; la seconda, due anni dopo, quando le alleanze si sono rovesciate e altre milizie create e sostenute di nuovo da Ruanda e Uganda hanno preso le armi contro Kabila presidente. Una guerra devastante, che ha coinvolto eserciti di diversi paesi e ucciso – secondo alcune stime – tre milioni di persone, in combattimento e ancor più di fame e malattie.

La faticosa pacificazione avviata nel 2002 nella Rdc non ha mai davvero raggiunto le province orientali. Qui il conflitto continua, alimentato dalle mire dei paesi vicini e dall’appetito per le straordinarie ricchezze naturali racchiuse nella regione, come il coltan e l’oro. L’esercito ruandese fa frequenti incursioni nel territorio adducendo il motivo della lotta ai ribelli hutu. L’interesse a sfruttare minerali strategici moltiplica le milizie armate che si contendono il territorio: si conta oltre un centinaio di sigle, legate ad appartenenze e a interessi politici, o semplici bande di persone che prendono le armi per ritagliarsi una sopravvivenza, liberi imprenditori in una zona dove lo stato è crollato. Il Kivu security tracker (creato dal Gruppo di studio sul Congo della New York University con l’istituto congolese Ebuteli) parla di 22mila vittime e oltre diecimila rapimenti dal 2017, con un’impennata negli ultimi mesi.

“La situazione di sicurezza e umanitaria [nelle province orientali] continua a degradarsi”, si legge nell’ultimo rapporto del Gruppo di esperti sulla Repubblica Democratica del Congo, creato dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nel lontano 2000 per monitorare il legame tra guerra e sfruttamento delle risorse naturali. Pubblicato lo scorso 13 giugno, il rapporto dice che il gruppo ribelle M23, sostenuto dal Ruanda, ha esteso il suo raggio d’azione e intensificato gli attacchi contro la popolazione civile. Per contro il Fronte democratico per la liberazione del Ruanda (Fdlr), che raccoglie milizie hutu attive fin dagli anni novanta, ha formato un “fronte patriottico congolese” con altri gruppi ribelli. Gli esperti dell’Onu affermano di aver “ottenuto nuove prove dell’intervento diretto delle forze armate ruandesi nella Rdc, sia per rafforzare i combattenti del M23 sia per condurre operazioni militari contro l’Fdlr e altri gruppi armati locali”.

Intanto, da due anni il Nord Kivu e la vicina provincia dell’Ituri sono in stato d’emergenza; l’amministrazione civile è stata esautorata, governano i militari. La missione delle Nazioni Unite nel paese, la Monusco, presente da oltre vent’anni, non riesce a impedire il conflitto. La forza multinazionale della Comunità dell’Africa Orientale, intervenuta di recente su richiesta del governo di Kinshasa per combattere l’M23, rischia di diventare un’ulteriore parte in causa.

“Gli abitanti non si fidano più della Monusco”, dice Pierre Kabeza commentando le notizie di questa fine agosto: 56 persone sono state uccise a Goma quando i militari hanno sparato per disperdere un corteo di manifestanti che si dirigeva verso la sede dei caschi blu. “La gioventù africana si sta svegliando”, continua Kabeza: “Abbiamo un paese aggredito, lo attestano perfino i rapporti dell’Onu ma poi non cambia nulla. Abbiamo grandi ricchezze naturali di cui beneficiano altri. Molti ormai considerano i caschi blu complici della situazione”. Il governo centrale ha annunciato una commissione d’inchiesta. Il presidente Félix Tshisekedi aveva promesso di trovare una soluzione al conflitto e punta a revocare lo stato d’emergenza prima delle elezioni politiche del 20 dicembre. Ma non sarà facile.

Torniamo a quel 22 febbraio 2021. L’ambasciatore Luca Attanasio di certo conosceva la situazione nella provincia: aveva visitato più volte i missionari saveriani che lavorano a Bukavu (c’era tornato anche due sere prima di essere ucciso), anche con la moglie Zakia Seddiki, con cui aveva fondato un’associazione umanitaria. Era stato a Panzi, nell’ospedale diretto dal medico e premio Nobel per la pace Denis Mukwege (che una rete della società civile congolese ora spera di candidare alle prossime elezioni). Era già stato a Goma, dove anche la sera prima dell’omicidio era in pizzeria con la piccola comunità italiana locale.

È stata una fatale sottovalutazione del pericolo a causare la morte di Luca Attanasio e dei suoi compagni di viaggio? O qualcuno ha voluto la sua morte? Per ora abbiamo solo ipotesi, sospetti, domande. Secondo il padre, Salvatore Attanasio, “la verità è ancora tutta da scrivere”.

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