I Thru Collected entrano nel loro studio alla spicciolata. Quando cominciamo a parlare, poco prima delle tre del pomeriggio, siamo in quattro. Quando si conclude la nostra conversazione, verso le cinque, siamo diventati nove. Siamo al Vomero, a Napoli. Il loro nuovo studio, che chiamano Il buco, si trova nel seminterrato di un palazzo elegante in via Scarlatti, una lunga strada in salita che porta a uno dei punti panoramici più belli della città. Qui c’è il quartier generale del collettivo campano.

Il progetto Thru Collected è nato nel 2020, durante la pandemia. I musicisti si sono conosciuti su internet e poi, quando le restrizioni si sono allentate, hanno cominciato a frequentarsi di persona. Hanno già all’attivo due album e una serie di ep solisti che stanno dando un contributo inedito alla musica italiana. Il loro lavoro artistico è fondato sulla condivisione e sull’eclettismo: tutti fanno un po’ tutto, dalle canzoni alla grafica delle copertine. Ogni decisione è frutto di discussioni in stile assemblea studentesca. Il gruppo decostruisce il linguaggio del pop e crea ponti tra la musica popolare a la scena alternativa. Ma lo fa senza retorica, senza sbandierare grandi intenzioni. E affronta ogni decisione, anche quelle più imprevedibili, con l’incoscienza della gioventù (il più vecchio dei Thru Collected ha 29 anni, il più giovane 19). Come dice Riccardo Sergio, direttore artistico e regista dei video: “Ricerchiamo l’accidentale presenza nel mainstream”.

I Thru Collected – anche se loro preferirebbero essere chiamati Thru Collected al singolare, senza articolo – sono tanti, e non è facile orientarsi quando si ascolta la loro musica. A volte è semplicemente difficile capire chi sta cantando o suonando: del progetto fanno parte, tra gli altri, il duo Specchiopaura, le cantanti Alice e Altea, i cantanti Sano e Lucky Lapolo. Vengono quasi tutti dal centro e dall’hinterland di Napoli, ma non solo: Altea è pugliese. Uno degli ultimi arrivati, Angelo Kras, classe 2004, è nato in Germania ed è cresciuto tra le Marche e Milano. All’inizio della loro esperienza vivevano tutti insieme in una casa-studio nel quartiere Fuorigrotta, un posto che definiscono “una specie di squat”. Lì sono i nati i pezzi di Discomoneta, il loro esordio, e degli altri ep. Poi hanno cominciato a fare concerti e dj set a Napoli e nel resto d’Italia, attirando l’attenzione di molti addetti ai lavori, finché non hanno firmato un accordo con Bomba dischi, l’etichetta discografica di Calcutta, anche se mantengono un alto grado di autonomia. I Thru Collected sono una specie di repubblica indipendente, con le sue regole e i suoi codici.

Il loro secondo disco, intitolato Il grande fulmine, è appena uscito e rappresenta un deciso passo avanti rispetto a Discomoneta. È una raccolta di ben trenta pezzi, in cui gli accenti indie-rock si fanno più evidenti rispetto al passato, anche se i riferimenti all’elettronica e al rap sono sempre molto presenti. Le voci sono spesso distorte con l’auto-tune, le chitarre usate in modi non convenzionali. Alcuni brani sono di alto livello, come Pistola, Terza stagione, Milano e soprattutto la conclusiva A danz ro ragn, che mescola la tradizione napoletana e salentina con il dub e l’elettronica. Suona come una specie di chiamata alle armi, una richiesta di attenzione.

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Dopo le presentazioni di rito ci sediamo sul divano rosso all’ingresso e cominciamo la nostra lunga conversazione. Il tavolino nero di fronte a noi è disseminato di pacchetti di tabacco, ma la cosa più curiosa è una confezione d’insalata del supermercato aperta, al centro. Niente che non si potrebbe trovare nella casa di un gruppo di studenti universitari. Al muro è appoggiata una chitarra acustica, mentre in fondo si vedono sintetizzatori, mixer, un computer e due stanze per registrare con la batteria.

I Thru Collected cominciano a parlare, alternandosi. Ogni tanto si fermano e si guardano, come per concordare le risposte, ma spesso il tentativo di dare un’unica versione delle cose si trasforma in una discussione collettiva che ci porta altrove. “I pezzi di questo disco sono nati in vari periodi: molti erano stati registrati nello studio di Fuorigrotta, altri a casa di un nostro amico a Ostuni, in Puglia. Altri ancora qui al Vomero”, racconta Riccardo Sergio. “La collaborazione con Bomba dischi ci ha permesso d’investire di più su alcuni aspetti, come per esempio il cortometraggio che ha anticipato l’uscita. Ma in generale abbiamo una gestione caotica dal punto di vista economico. Di solito è uno di noi a mettere i soldi e poi cerchiamo di recuperarli con le serate e le feste che organizziamo. Non c’è una grande visione imprenditoriale, è più un autosabotaggio. Il nostro motto resta quello degli inizi: ‘Senza senno, senza pretese’”.

Ma il titolo del disco com’è nato? Risponde Sano: “È una citazione di Giardino, un brano di Discomoneta. Ci piaceva l’immagine del fulmine, che descrive qualcosa d’improvviso e devastante. E rappresenta l’ambizione di fare le cose in grande, la nostra creatività catastrofica: del resto abbiamo pubblicato trenta canzoni tutte insieme, direi che è un fatto serio”. L’album si apre con Musica di merda, un pezzo che suona come un atto d’accusa al mainstream. “Anche quella è autoreferenziale, come tante cose nostre. È nata da un verso contenuto nel disco degli Specchiopaura”, prosegue Sano. “In quel momento ero arrabbiato con una persona estranea al nostro collettivo, che aveva criticato la musica che facevo. E quindi ho risposto che ‘Serve musica di merda’ per stare tranquilli, cioè musica che scende a patti con tutte le logiche che non ci piacciono. È un po’ il manifesto dell’intero album, una rivendicazione d’indipendenza e una riflessione sul fatto che abbiamo firmato con un’etichetta, e quindi noi stessi siamo scesi a patti”.

A un certo punto viene spontaneo fare una domanda a ciascuno di loro: cosa ascoltate? Ne viene fuori un quadro abbastanza sorprendente. Lucky Lapolo, seduto sul divano, risponde quasi con timidezza: “Tra le mie influenze ci sono cantautori come Fabrizio De André, ma anche la bossa nova di João Gilberto. Ma ognuno di noi ha le sue preferenze, e ci contaminiamo a vicenda”. “Io ascolto molto shoegaze, ma anche l’elettronica di Aphex Twin o Squarepusher”, aggiunge Giuseppe Mangiarulo degli Specchiopaura. L’altro componente del duo, Fabrizio Zullo, sta arrivando. “È sull’autobus”. “Io invece ascolto post-trap, artisti come Rx Papi, ma anche il cosiddetto hyper-pop”, dice Angelo Kras.

Si apre la porta, entra Altea e si siede sul parquet per rollarsi una sigaretta. “Sono cresciuta ascoltando la musica popolare salentina, ma da ragazzina ho avuto un lungo periodo rnb e mi piacevano Rihanna e Beyoncé. Grazie ai consigli dei miei genitori sono passata attraverso i Beatles e i Pink Floyd. E poi ci sono stati i Radiohead, che non mi hanno mai abbandonata”.

Quello che colpisce, facendo un sondaggio sui gusti dei Thru Collected, è che ascoltano soprattutto musica del passato. In un brano di Il grande fulmine, Psy trance, citano addirittura gli Smashing Pumpkins, band rock degli anni novanta guidata da Billy Corgan.

“Più che il passato in sé, ci affascina l’approccio di tanti gruppi di una volta. Il modo in cui i Velvet Underground e i Beatles stavano insieme ci affascina. Oggi invece la discografia ti porta a cercare di riprodurre cose che già funzionano, a seguire vie già battute. Per noi il fatto di vivere e a volte dormire tutti nella stessa stanza è un atto artistico”, spiega Riccardo Sergio.

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Le canzoni di Il grande fulmine parlano di relazioni tra le persone, ma spesso usano immagini forti, quasi pulp. In Pistola un ragazzo decide di regalare un’arma alla fidanzata, così potrà difendersi. In Sotto la punto Sano canta: “Passami con la tua macchina addosso, ti perderò per averti tradita”. In un’epoca in cui i femminicidi sono al centro delle cronache, non è rischioso mettere la violenza al centro delle canzoni? “È un linguaggio simbolico, quelle immagini non hanno un significato letterale. Noi in questo disco diciamo che vogliamo essere investiti da una macchina o che vorremmo regalare una pistola alla nostra ragazza, ma chiaramente è una metafora dei rapporti di coppia”, spiega Lucky Lapolo. E Riccardo Sergio gli fa eco: “Anche tutta la polemica attuale sui testi delle canzoni rap la trovo esagerata. Nel recente disco di Drake insieme a 21 Savage, Her loss, c’è anche del romanticismo, mentre in tanti testi dei cantautori italiani dove le donne sono paragonate ai fiori spesso c’è molto più maschilismo. Le parole delle canzoni hanno un contesto preciso, non sono scritte su un giornale o dette in un comizio. In un pezzo del disco di Drake, Spin bout u, il rapper dice: ‘Ho acceso la tv e ho visto un uomo che non ha mai avuto pussy a scuola fare leggi su quello che le donne possono fare’. Il paradosso è che, con un linguaggio grezzo, Drake ha detto una cosa femminista. Quello che secondo me potrebbero fare i rapper è dare agli ascoltatori degli strumenti per capire meglio quello che dicono nei loro pezzi”.

Come detto, a chiudere il disco c’è A danz ro ragn, che comincia con il verso “Nuie simm’ ‘e Napule terra ‘e conquista” (Noi siamo di Napoli, terra di conquista). “Il pezzo l’abbiamo scritto con Fabrizio degli Specchiopaura nello studio di Fuorigrotta, e comincia con una citazione di un brano di mio padre, Maurizio Capone, che fa musica napoletana”, spiega Sano. “L’abbiamo tenuto fermo per un po’, perché quando si tratta di omaggiare la tradizione napoletana non siamo sempre d’accordo tra noi. Abbiamo deciso di aggiungere la parte di Altea in salentino nel finale. L’abbiamo messa come trentesimo pezzo perché è la conclusione di una serie di nostri ragionamenti sulla musica, rappresenta bene tutte le anime di Il grande fulmine”.

Sono quasi le cinque. Provo a fare una domanda sul rapporto tra musica e politica. “La musica dev’essere un pretesto per far pensare, più che per fare propaganda”, dice Riccardo Sergio. Poi, dalla sua risposta nasce un’animata discussione, in cui si cita di nuovo Drake, ma anche Pier Paolo Pasolini. Quel modo di affrontare gli argomenti ce l’hai solo quando hai meno di trent’anni, ed è bello vederlo in azione. Quando ci salutiamo, l’impressione è quella di aver assistito a un piccolo vortice d’idee.

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