17 luglio 2018 11:26

Subito dopo l’idea di “email intelligente”, sulla quale ho sproloquiato la settimana scorsa, viene quella di “benessere digitale”, il termine generale per descrivere i nostri tentativi di vincere la dipendenza dalla tecnologia – e i suoi terribili effetti sulla nostra salute, produttività e politica – per mezzo della tecnologia stessa.

Un’applicazione molto popolare, chiamata Forest, quando posate lo smartphone fa apparire sullo schermo un albero che gradualmente comincia a crescere per poi morire appena lo riprendete in mano. I telefoni che usano il sistema Android hanno Wind Down, un’app che quando si avvicina l’ora di andare a letto fa lentamente sbiadire i colori dello schermo fino a farlo diventare in bianco e nero. E il mese scorso Apple ha annunciato l’introduzione di nuove funzioni per aiutarci a controllare, e limitare, il tempo che passiamo a guardare a bocca aperta lo schermo.

Usare il fuoco per spegnere il fuoco in questo modo può sembrare una buona idea. E, considerata l’innumerevole quantità di dati che raccolgono queste aziende su come usiamo i loro prodotti, nessuno meglio di loro potrebbe aiutarci a utilizzarli in modo meno malsano, se volessero farlo.

Se non sopportate l’uso eccessivo che fate del vostro telefono, smettete semplicemente di usarlo tanto

Tuttavia, l’idea di benessere digitale scatena in me una reazione simile a quella di certi personaggi autoritari che mi capita di vedere in alcuni brutti reality televisivi americani e che urlano di mandare gli adolescenti ribelli nel deserto del Colorado per imparare l’autodisciplina e l’amore per se stessi.

Se non sopportate l’uso eccessivo che fate del vostro telefono, smettete semplicemente di usarlo tanto! Chiedere ai colossi della tecnologia di aiutarvi non ha senso, se non altro per via del palese conflitto di interessi (per quanto possano sembrare preoccupati per il nostro benessere, Apple e Google hanno bisogno che abbiate bisogno dei loro prodotti). Ma è anche infantile, come spiega sul suo blog lo scrittore Cal Newport. “Sono un uomo adulto”, scrive. “Se guardo il telefono ogni cinque minuti, o gioco con i videogame invece che con i miei figli, non ho bisogno dell’animazione di un albero che muore per cambiare abitudini. Ho bisogno di qualcuno che rispetto che mi strappi quello stupido aggeggio di mano e mi dica: ‘Adesso piantala!’”.

Per dirla in altre parole, la politica del benessere digitale mira a ridurre la nostra dipendenza dai congegni elettronici, ma al prezzo di una ancora maggiore dipendenza dalle aziende che li producono. Esclude la possibilità di un rifiuto più radicale della tecnologia di consumo, che per alcune persone potrebbe essere l’unica soluzione. E, più in generale, indebolisce la nostra capacità di autodisciplina, affidando a qualcun altro il compito di gestire il nostro tempo e la nostra attenzione.

È un po’ come contare sul progresso tecnologico per risolvere il problema del cambiamento climatico, che almeno in parte è dovuto proprio al progresso tecnologico. Potrebbe funzionare – io ci spero – ma senza dubbio è anche un modo comodo per evitare di prendere in considerazione la possibilità che sia necessario un cambiamento di stile di vita più radicale.

In fondo, sostiene Newport, la gente non vuole che i suoi congegni siano “leggermente meno invadenti… probabilmente vorrebbe essere impegnata in qualcosa di così importante e significativo da dimenticarsi dove ha lasciato il telefono”. Forse la vera soluzione non consiste nel rendere meno attraenti i nostri telefoni ma, se è possibile, scegliere di vivere una vita così interessante che i nostri telefoni non possono competere con tutto quello che abbiamo da fare.

Da ascoltare

Nella puntata 29 del suo podcast Hurry slowly, lo scrittore e urbanista Adam Greenfield spiega perché gli smartphone si sono impossessati della nostra vita in meno tempo di qualsiasi altra invenzione della storia umana.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano britannico The Guardian.

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