Libri letti
*• How to live, Sarah Bakewell
• Broken word, Adam Foulds
• Book of days, Emily Fox Gordon*
Libri comprati
*• Book of days, Emily Fox Gordon
• The master, Colm Tóibín
• Nothing to envy, Barbara Demick
• Family Britain, David Kynaston
• Spirit level, Richard Wilkinson e Kate Pickett*
Ultimamente mi è successo qualcosa. Qualcosa che, ho il sospetto, potrebbe influire su una parte significativa e importante del resto della mia vita. Un modo pomposo per definire questo cambiamento è che sto venendo a patti con l’antichità. O, per dirlo con parole che descrivono più esattamente quello che sta succedendo, ho scoperto che certa roba vecchia non è male.
Finora tra le mie lacune figuravano i poeti romantici, ogni singola battuta di musica classica mai scritta e quasi tutto quello che è stato prodotto prima dell’ottocento, con l’eccezione di Shakespeare e di un paio delle più sanguinarie, e quindi tarantinesche, “tragedie di vendetta”.
Quando ero giovane non volevo ascoltare o leggere niente che mi ricordasse i mobili marroni e profondamente deprimenti della casa di mia nonna. Lei non aveva molti libri, ma quelli che aveva erano marroni anche loro: vecchie edizioni economiche di un paio di romanzi di sir Walter Scott, per esempio, e forse un paio di libri di seconda mano di una certa Frances Hodgson Burnett.
Quando finivo la mia scorta di roba da leggere durante le vacanze m’indirizzavano verso quella sua unica libreria: ma io volevo i tascabili colorati dell’editrice Puffin, non vecchie edizioni ammuffite con la copertina rigida, che rappresentavano quasi tutto quello che non mi interessava.
Secondo me, questa dannosa associazione si sarebbe dovuta attenuare con il tempo, invece è stata lasciata libera di fiorire incontrastata. Se per fare lo yogurt basta prenderne un cucchiaino e metterlo dentro non-so-cosa, io con un cucchiaino di noia formativa ho generato mezzo secolo di agguerrito pregiudizio.
Ho presto scoperto che non volevo leggere o ascoltare niente di consigliato da chiunque si trovasse in una posizione di autorità. Chaucer era pieno di tarli, Wordsworth era giallo e con i bordi arricciati, qualsiasi edizione mi dessero. Leggevo Graham Greene e John Fowles, Kurt Vonnegut e Tom Wolfe, Chandler e Nathaniel West, Greil Marcus e Peter Guralnick, e ascoltavo esclusivamente musica pop.
Dickens è riuscito a inserirsi di straforo, alla fine, perché era divertente, a differenza di sir Walter Scott e Shelley che non lo erano. E siccome vedevo tutto attraverso il prisma del rock’n’roll, ogni tanto mi capitava di scoprire qualcosa per averlo letto sulle pagine del New Musical Express.
Quando Mick Jagger accennò al fatto che Sympathy for the devil era ispirata a Il maestro e Margherita di Bulgakov, mi precipitai in libreria a comprarlo. Non aiutava il fatto che a scuola non fosse permesso studiare niente di lontanamente contemporaneo fino all’ultimo anno di università: nessuno ti spiegava che quello aveva portato a questo.
Anzi, dalla mia istruzione avevo ricavato l’impressione opposta, che la storia culturale fosse finita più o meno all’epoca in cui Forster aveva scritto Passaggio in India. Il modo più rapido per uccidere qualsiasi amore per i classici, oggi lo so, è dire ai giovani che tutto il resto non conta, perché a quel punto potranno vederli solo in un museo della letteratura, dietro il vetro di una bacheca.
Non toccate! E non pensate neanche per un attimo che quei libri vogliano vivere nel vostro stesso mondo! A quel punto, se la scuola non avrà del tutto spento la vostra fame e la vostra curiosità, passerete gran parte della vita adulta a sforzarvi di collegare puntini di cui ignoravate l’esistenza.
In un certo senso, la mia dedizione alla modernità mi è stata utile: quelli che restano aggrappati ai riferimenti culturali di un’istruzione ortodossa spesso sono pieni di sé, pigri e poco coraggiosi intellettualmente. In fondo, tutte le decisioni culturali le ha prese qualcun altro per loro.
E comunque, se decidete di consumare solo arte del ventesimo secolo e della prima parte del ventunesimo, finirete per scoprire un sacco di cose interessanti, tante da bastarvi per una vita intera. Se la vostra fedeltà al canone significa che non avete mai avuto tempo per Marilynne Robinson, Preston Sturges o Marvin Gaye, allora forse non siete così colti come pensate (no, non parlo di voi. Voi sapete chi è Marvin Gaye. Ma c’è un sacco di gente così, in giro. Soprattutto qui in Inghilterra).
Negli ultimi due anni, però, ho dato una scorsa alle lettere di Keats, ascoltato ossessivamente Saint-Saëns, scoperto i dipinti di Van Eyck e fatto cose che non mi sarei mai sognato di fare neanche a quarant’anni suonati. E la cosa ancora più incredibile, almeno per me, è che nessuna di queste cose mi è sembrata strana. Non c’è stata un’unica folgorazione sulla via di Damasco. C’è stato piuttosto un gruppetto di piccole scoperte e risvegli.
Lo splendido libro di Laura Cumming A face to the world, uno dei testi critici più intelligenti e illuminanti che abbia mai letto. Non l’avrei mai e poi mai preso in mano se non avessi conosciuto l’autrice, eppure alla fine sono partito alla ricerca di tutti gli autoritratti di cui scrive, cosa che ha comportato visite a gallerie d’arte e musei che avevo accuratamente evitato finché lei non mi ha insegnato ad andarci (il libro l’ho letto durante la mia ridicolmente ingiusta e quasi certamente illegale sospensione da queste pagine, l’anno scorso, quindi non ho potuto raccomandarvelo allora, ma dovreste proprio leggerlo).
La canzone Just be good to green di Professor Green e Lily Allen. Sono abbastanza vecchio da ricordare non solo la versione dei Beats International, Dub be good to me, ma anche l’originale della Sos Band,* Just be good to me*. Ora, non voglio dire che sia stato Professor Green a farmi scappare a gambe levate verso gli ultimi quartetti di Beethoven (molto belli, a proposito).
Effettivamente, però, mi sono ritrovato a chiedermi se quando ascolti una canzone dieci, cento, mille volte, come un bambino su una giostra, non arrivi un momento in cui devi smettere di sorridere e fare ciao ciao con la manina. Per quanto mi riguarda, Saint-Saëns è un nuovo artista, con un grande futuro davanti a sé.
Delle cuffie nuove e costose che sembravano chiedermi cibo vero, orchestra e sinfonie anziché una dieta inconsistente di cantautorame.
Il bel film di Jane Campion Bright star, che ha trasformato Keats in uno scrittore accessibile a tutti. Durante la promozione di Lonely avenue, il disco a cui ho lavorato con Ben Folds, ci hanno chiesto di scambiarci alcune tracce per una cosa su iTunes.
Ben ha consigliato uno dei primi album di Elton John e il primo movimento del terzo concerto per pianoforte di Rachmaninov. E io ho comprato Rachmaninov perché il suo entusiasmo era davvero sincero e incoraggiante.
E poi la biografia di Montaigne scritta da Sarah Bakewell, How to live. Non avevo mai letto Montaigne prima di prendere in mano il libro di Bakewell. Sapevo solo che era un saggista del cinquecento, dunque aveva scelto deliberatamente di non interessarmi. Quindi non saprei spiegarvi perché ho sentito la necessità di comprare e poi divorare How to live.
Ed era proprio una necessità. Ho già scritto su queste pagine di come a volte la mente sappia di cosa hai bisogno, esattamente come il corpo sa quando ha bisogno di ferro, di proteine, di una bevanda che non contenga caffeina o di assenzio. Ho il sospetto che in questo caso il titolo abbia avuto un peso colossale: un libro che mi spiega come si vive e insieme colma tutte le mie lacune culturali? Preso.
Be’, How to live è un libro splendido, originale, avvincente, accurato, ambizioso e intelligente. Non solo perché contiene un’utile guida alla filosofia ellenica, e una cronaca molto leggibile delle guerre civili nella Francia del cinquecento: questo, forse, c’era da aspettarselo, viste le influenze di Montaigne e il suo impegno politico (diventò sindaco di Bordeaux, una città che fu punita per le sue tendenze insurrezionaliste).
Né perché racconta con immediatezza e partecipazione molte delle relazioni umane di Montaigne: con la moglie, con il suo curatore e con il suo migliore amico, de La Boétie, che morì in una delle frequenti epidemie di peste. Per lui Montaigne scrisse la famosa frase: “Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: perché era lui, perché ero io”.
Le virtù convenzionali di una biografia ci sono tutte, e al posto giusto, ma dove Bakewell davvero trascende il genere è nel suo modo di organizzare il materiale, rifiutandosi di lasciare Montaigne confinato nel suo tempo. In poco più di trecento pagine, l’autrice ci consegna una biografia esauriente, che documenta i secoli vissuti da Montaigne dopo la sua morte, cioè quelli in cui, tutto sommato, succedono le cose più importanti.
E l’esperienza post mortem di Montaigne è stata molto ricca: ha messo in crisi Cartesio e Pascal, è stato vietato in Francia (fino al 1854), ha prima conquistato e poi deluso i romantici, ispirato Nietzsche e Stefan Zweig, e reso possibile questa rubrica.
C’è riuscito inventando la forma del saggio personale, praticamente da solo. Quante altre persone vi vengono in mente che hanno creato un genere letterario? Anzi, quante persone vi vengono in mente che hanno creato un idioma culturale? James Brown, forse: prima di Papa’s got a brand new bag il funk non esisteva e poi, di colpo, eccolo lì. Be’, Montaigne è stato il James Brown della fine del cinquecento.
Nel suo magnifico 1599. A year in the life of William Shakespeare, James Shapiro scrive che Montaigne fu “il primo a diventare il soggetto di se stesso”, consentendo a Shakespeare di produrre l’equivalente teatrale, il monologo. Naturalmente, non si deve esagerare il genio innovativo di Montaigne, è difficile immaginare che nei cinquecento e passa anni dalla prima pubblicazione dei Saggi qualche altro narcisista, prima o poi, non avrebbe avuto l’idea di piazzarsi al centro della sua prosa.
Montaigne ha inventato il saggio come un altro ha inventato la ruota. Se ancora oggi viene letto non è perché è stato il primo, ma perché resta attuale. E perché il suo tormentato agnosticismo e il suo commovente brancolare nel buio (conclude spesso una sua riflessione o opinione con un disarmante “ma non lo so”) diventano sempre più importanti via via che ci rendiamo conto, con sempre maggiore certezza, che non sappiamo un bel niente di niente. Sarei sorpreso e felice se mi capitasse di leggere un libro più ricco di questo nei prossimi dodici mesi.
E poi, come chi ha una mano di Montaigne posata su una spalla, ho scoperto Book of days di Emily Fox Gordon, una raccolta di saggi personali. Avevo letto una recensione positiva sull’Economist, e me li aspettavo ben scritti, leggeri, divertenti e usa e getta, ma non è affatto così: non sono blog rilegati con una bella copertina blu (e anche se su questa rivista non sono ammesse malignità, si può dire che alcuni blog sono migliori di altri? E che uno, o magari un paio, non hanno il benché minimo valore letterario?).
Ci sono battute umoristiche, in Book of days, ma la scrittura è accurata, la riflessione complessa e originale, e quasi tutti gli argomenti scelti dall’autrice – le mogli dei professori, il suo rapporto con Kafka, il matrimonio della nipote – servono in un modo o nell’altro a elaborare qualcosa di prezioso e importante.
Se v’interessano la scrittura e il matrimonio – e in caso contrario non so cosa ci facciate qui, visto che, a parte figli e calcio, non parlo d’altro – allora lei ha da dire cose che non ho mai letto altrove, su cui rifletterò e che forse perfino rileggerò in futuro. Nella sua introduzione a How to live, Sarah Bakewell cita il giornalista inglese Bernard Levin, che ha affermato: “Sfido qualsiasi lettore di Montaigne a non posare il libro, a un certo punto, pensando incredulo: ‘Come faceva a sapere tante cose di me?’”.
Be’, io non ho ancora fatto questa esperienza con Montaigne, forse perché finora, nelle mie limitate incursioni, ho cercato solo le parti più scabrose. Ma è una sensazione che ho provato diverse volte leggendo Book of days.
In The prodigal returns, il saggio sul matrimonio della nipote dell’autrice, c’è una riuscita meditazione sull’etica e i tradimenti dell’autobiografia, in cui si legge questo passaggio: “Che cos’è che mi piace, allora? Non gli alberghi, evidentemente. Non la golosità, non le feste, non l’adulazione, non un bicchiere di vino bianco dopo l’altro. Quello che voglio fare – sarebbe sbagliato dire ‘mi piace’, qui – non è avere esperienze, ma riflettere sulle esperienze e raccontarle. Sono sempre alla ricerca di scuse per non sedermi al tavolo e scrivere, ma la mia vita ‘mi piace’ solo nella misura in cui, anche mentre la sto vivendo, posso scrivermela in testa”.
Ok, ovviamente non parla di me. Io sono un avventuriero, un buongustaio, un donnaiolo, un gaudente, un surfer, uno che fa bungee jumping e, quando capita, un pugile, un giocatore d’azzardo, un giocatore di Scarabeo, un uomo che strizza fino all’ultima goccia la spugna della vita. Ma insomma, ho pensato che un paio di voi potessero riconoscersi. Secchioni. Di sicuro Montaigne si sarebbe riconosciuto.
Ho paura che dovrò consigliarvi ancora un poema epico sulla rivolta dei mau mau, stavolta lo straordinario, perfetto Broken word di Adam Foulds. Occuperà sì e no un’ora della vostra vita, di cui non rimpiangerete un solo istante. Sembra che Foulds sia anche l’autore di un bel romanzo, The quickening maze, sul poeta John Clare, del quale finora non mi ero accorto: ma questo poema ha comunque la forza narrativa di un romanzo.
Ambientato negli anni cinquanta (bella forza, diranno quelli che sanno tutto dei mau mau, cioè non proprio ognuno di voi, suppongo), racconta la storia di Tom, un giovane inglese che, l’estate prima di entrare all’università, va a trovare i suoi genitori in Kenya e si ritrova coinvolto nella terribile, raccapricciante repressione di una rivolta violenta.
Se si facessero i soldi producendo film tratti da lunghi poemi cruenti e politicamente impegnati ma profondamente umani, allora con i diritti di Broken word Foulds diventerebbe ricco.
Il talento di Foulds è così grande che riesce a elevare anche la più banale delle conversazioni domestiche. Nell’ultima parte del poema, Tom cerca di sedurre una ragazza all’università, e il dialogo è pieno di “no” e “non sta bene”, espressioni di rifiuto tipiche di un corteggiamento anni cinquanta. Ma a dare a questo passaggio la sua forza raggelante è tutto quello che è successo prima: quanta della violenza di cui Tom è stato testimone, ora è dentro di lui?
C’è un tale controllo, qui, che anche il linguaggio più banale diventa potente, stratificato, denso. Non è roba da poco. Perché la rivolta dei mau mau? Alla fine del poema, Tom e la ragazza che ha conquistato si fermano a guardare le vetrine di una gioielleria: i figli che avrebbero potuto avere insieme, nati a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta e spediti a studiare nelle scuole private inglesi, sono quelli che oggi gestiscono le nostre banche e i nostri eserciti. Il nostro paese, anche.
Questi tre libri sono tra i migliori che mi siano capitati da anni, li ho letti nelle ultime quattro settimane e sono tutti contemporanei: How to live e Book of days sono usciti nel 2010, Broken word nel 2008.
Quindi, nonostante le arie che mi sono dato e il grande sfoggio di nomi, il massimo di antichità a cui mi sono avvicinato è un poema narrativo pubblicato due anni fa e ambientato negli anni cinquanta. Del resto, è proprio questo il punto, no? La buona scrittura è dappertutto, c’è sempre stata e ci sarà sempre.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 880, 14 gennaio 2011*
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