Vladimir Putin, artefice della peggiore guerra del nostro secolo, è convinto che un’antica cronaca sacerdotale giustifichi questa carneficina senza fine. La verità sull’opera in questione, la Cronaca degli anni passati, ci aiuta a capire la guerra russa di oggi. La vicenda dell’eroe del racconto, il capo tribù danese Rørek, si collega a un’altra opera: l’Amleto di William Shakespeare. Abbiamo bisogno dell’arte per cogliere la profondità della tragedia, perché l’incontro dell’agosto scorso tra Putin e Donald Trump ad Anchorage, in Alaska, non può essere letto alla luce di categorie rassicuranti come l’interesse nazionale.

Putin è un uomo cinico, il padre della politica della post-verità in cui Trump prospera. Ma dietro il cinismo più profondo si nasconde spesso un’idea molto ingenua. Nel caso di Putin è la convinzione che la Russia abbia un passato antico e ininterrotto di cui fa parte anche l’Ucraina. La Cronaca degli anni passati, un’accozzaglia di storie messa insieme dai monaci medievali di Kiev, è diventata per lui una sorta di profezia. In un testo scritto prima dell’invasione e poi nel 2024 in una lunga intervista televisiva con il giornalista di destra Tucker Carlson, Putin presenta la figura di Rørek come l’iniziatore di una storia sacra che legittima l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. In Alaska ha definito gli ucraini “un popolo fratello” con “le stesse radici” che, sostiene, va liberato con la forza dalla falsa convinzione di essere una nazione distinta.

In realtà, la Cronaca racconta l’arrivo degli scandinavi nella regione baltica orientale durante l’alto medioevo. Uno dei primi protagonisti della vicenda è Rørek, capo danese del nono secolo, il cui nome nel testo è scritto Rurik. Nella Cronaca si legge che nell’anno 862 gli slavi chiedono di essere governati dagli scandinavi. Questa svolta improbabile sembra presa in prestito da una saga nordica, poiché danesi e svedesi amavano giustificare le loro razzie con presunti inviti da parte delle popolazioni locali.

È probabile che un danese di nome Rørek abbia davvero pacificato alcune terre nella regione baltica orientale. Ma né lui né i suoi uomini misero mai piede a Kiev, distante più di mille chilometri dal punto in cui sarebbero sbarcati; passò almeno un altro secolo prima che gli scandinavi cominciassero a stabilirsi lì. In ogni caso, nulla di ciò che è accaduto nell’Europa orientale del medioevo obbliga gli stati di oggi a farsi la guerra, non più di quanto la storia carolingia imponga alla Francia d’invadere il Belgio o il passato dei maya giustifichi un’invasione messicana del Guatemala.

La storia di Rørek è importante per un altro motivo: c’insegna qualcosa sulla politica mitologica delle dinastie immaginarie. Scrivendo a distanza di secoli i monaci di Kiev volevano dimostrare che i loro protettori erano gli eredi di una tradizione gloriosa. Così hanno trasformato Rørek in un eroe, lo hanno fatto restare nella regione baltica, gli hanno attribuito una vita biblicamente lunga, gli hanno fatto concepire un figlio in punto di morte e poi hanno fatto arrivare quel bambino a Kiev, di nascosto, come suo erede. Tutto questo non è mai successo: i conti non tornano e le prove archeologiche parlano chiaro.

Un passato del genere serviva ai monaci per avallare i sovrani dell’epoca e sostenere che erano più importanti dei loro rivali nella regione baltica. Ottocento anni dopo, Putin si serve della Cronaca per gli stessi scopi, ma su scala molto più grande. La tesi è che Mosca dovrebbe assoggettare Kiev, anche se all’epoca degli eventi del racconto la capitale russa non esisteva neanche.

Mosca diventò un centro di potere sotto il dominio dei mongoli. Dopo l’epoca di Rørek, altri scandinavi presero il controllo di Kiev. I monaci scrissero la Cronaca nel tentativo di giustificare la loro supremazia. Quello stato, il regno della Rus’ di Kiev, crollò in seguito alle invasioni mongole del tredicesimo secolo. Gran parte del suo territorio fu assorbito dal granducato di Lituania. La nuova città di Mosca cadde sotto il controllo dei khan, che scelsero dei capi locali incaricati di riscuotere i tributi.

Dopo un paio di secoli sotto il dominio mongolo i sovrani di Mosca, che si erano liberati dal giogo dei khan, decisero di costruirsi una storia più gloriosa. Così tornarono indietro di circa settecento anni, recuperarono la figura di Rørek dalla Cronaca e inventarono una dinastia rjurikide. Pietro il Grande, quando fondò il suo impero russo nel 1721, andò ancora più indietro per appropriarsi del nome scandinavo Rus’. I nuovi stati hanno bisogno di miti fondativi antichi, come dimostrano Pietro e Putin.

Rørek non ha fondato né la Rus’ di Kiev né nessun altro stato, e anche se lo avesse fatto è assurdo pensare che una vicenda medievale renda leciti i bombardamenti sulle città ucraine di oggi. La leggenda di Rørek ci parla delle finzioni del potere e ce ne introduce un’altra: quella sui meccanismi del potere.

Apprendiamo dell’esistenza di un simil-Rørek dal compendio Gesta danorum, scritto dallo storico medievale Sassone Grammatico alla fine del dodicesimo secolo. Gli studiosi discutono da decenni se questi due Rørek siano la stessa persona. È probabile, anche se in entrambe le ricostruzioni compaiono elementi leggendari. La storia di Sassone Grammatico racconta che Rørek il Danese è un vichingo pagano, “la rovina della cristianità”. Avendo ereditato dal padre delle terre nella regione orientale del Baltico, salpa per riscuotere tributi dai popoli locali. Secondo questa ricostruzione, gli slavi vivevano molto vicino al mar Baltico. Gesta danorum concorda con la Cronaca su un punto fondamentale: un danese esercita il suo potere sugli slavi. In quel tempo e in quel luogo, non era un fatto straordinario. Rørek poi tornò a casa. Fino agli anni dopo l’870 si hanno testimonianze di sue incursioni e del suo dominio su tratti della costa che oggi fanno parte dei Paesi Bassi e della Germania.

La storia familiare di Rørek, così come ci viene raccontata da Sassone, ci porta in un territorio mitico familiare. La carriera di Rørek, scrive lo storico, comincia quando suo padre uccide il figlio prediletto del dio Odino, che viene poi vendicato da un altro figlio di Odino stesso. È a quel punto, alla morte del padre, che Rørek intraprende la sua avventura nel Baltico per riscuotere i tributi dalle popolazioni locali. Mentre la Cronaca lo fa rimanere nella regione baltica – dove, in punto di morte, concepirà un figlio utile alla narrazione – il Gesta danorum lo riporta in Danimarca, dove ha una figlia di nome Gerutha.

Dietro il profondo cinismo del presidente russo si nasconde la convinzione che la Russia abbia un passato antico e ininterrotto di cui fa parte anche l’Ucraina

Il principe danese Rørek, scrive Sassone, assiste alla rivalità tra due fratelli capi tribù: Feng e Orvendil. Colpito dal valore di Orvendil, Rørek gli dà in moglie Gerutha. Feng, accecato dalla gelosia, uccide il fratello e sposa Gerutha. Testimone di tutto è il figlio di Orvendil, nipote di Rørek, che per sfuggire alla stessa sorte si finge pazzo e intanto pianifica la sua vendetta. Il suo nome è Amleth. Shakespeare lo ha reso immortale chiamandolo Amleto.

Rørek si staglia quindi sullo sfondo del più grande dei drammi shakespeariani, ma non ha alcun ruolo nell’origine dello stato russo. Putin, tuttavia, sembra tenere particolarmente alla sua versione del passato dell’Europa orientale, e all’idea che la guerra sia necessaria per rendere vera la narrazione. Si può credere in qualcosa d’irreale e poi metterlo in scena, trascinando gli altri in una trasformazione violenta. Hannah Arendt definiva tutto questo totalitarismo.

Sembra una follia sostenere che una terra possa essere rivendicata e conquistata sulla base di un popolo inesistente, frutto della lettura erronea di una storia traballante tratta da un antico racconto dove le città vengono espugnate dai bambini, le guerre si decidono con delle gare di lotta e un sovrano muore per via di una profezia legata a un cavallo. O forse è la politica che rimodella il mondo con la morte e la distruzione per farlo corrispondere all’arte.

Più di un secolo fa, mentre l’impero russo canonizzava la figura di Rørek, i pensatori ucraini seguivano una strada completamente diversa. Inventavano la storia sociale (Mychajlo Hruševskyj), sottolineavano l’importanza dell’incontro culturale per la consapevolezza di sé (Ivan Franko) e per la costruzione dello stato (Vyacheslav Lypynsky), e recuperavano elementi del passato classico di Scizia e Grecia (Lesja Ukraïnka). Oggi questi autori stanno vivendo una rinascita. Mentre nell’Ucraina segnata dalla guerra fioriscono le scienze umane e gli studiosi pubblicano storie dal respiro globale, lo stato aggressore introduce forme estreme della politica della memoria, imponendo una visione ufficiale di una Russia eterna e incontaminata.

Se un dittatore come Putin può sostenere che la storia si è cristallizzata in un determinato momento, allora tutto ciò che è accaduto in momenti diversi diventa metafisicamente sbagliato. Se davvero si può dire che l’Ucraina del 2025 appartiene alla Russia perché un dittatore russo si rifà a una leggenda su un vichingo dell’860, allora le decine di milioni di persone che vivono oggi in quel paese non hanno voce nella definizione della loro identità. Non gli resta che subire esecuzioni, torture e il rapimento dei figli.

La metafisica medievale si fonde con la propaganda della post-verità. Quando la guerra di Putin è cominciata, nel 2014, la rivendicazione degli antichi diritti ha coinciso con un’intensa attività sui social network, prima per mascherare l’invasione russa della Crimea e di altre zone del sud e sudest dell’Ucraina, poi per sostenere la Brexit, infine per appoggiare la campagna presidenziale di Trump. Vladislav Surkov, consigliere di Putin, è stato uno dei principali artefici della svolta post-verità della politica interna ed estera russa: un modello in cui un paese può invaderne un altro basandosi su una favola del passato, negare l’aggressione grazie a sofisticate tattiche digitali e uscirne addirittura vincitore.

Il successo della strategia è innegabile. La risposta dell’amministrazione Obama all’invasione russa del 2014 è stata esitante e insufficiente. La Brexit ha vinto. Trump è stato eletto presidente. Oggi spesso fatichiamo a ricordare che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è cominciata più di dieci anni fa, e ha coinvolto anche il Donbass. Questa perdita di memoria, causata dalla guerra ibrida, ha conseguenze reali. Trump presenta il Donbass come un territorio che l’Ucraina dovrebbe semplicemente cedere, ignorando il fatto che le zone ancora sotto controllo ucraino ospitano linee difensive, città fortificate, risorse naturali cruciali e che la Russia sta cercando di conquistare la regione da più di undici anni.

L’Amleto ci porta alla debolezza della politica estera statunitense sotto Trump. Surkov era ossessionato dal dramma shakespeariano. Nei suoi reportage da Mosca di anni fa, Peter Pomerantsev racconta una conversazione con una professoressa di letteratura sulla trama dell’Amleto. L’interpretazione della professoressa russa è molto chiara: la Norvegia aveva infiltrato le élite danesi con i suoi agenti, Amleto era stato manipolato e reso pazzo per destabilizzare la corte danese e il colpo di stato del principe norvegese Fortebraccio era il vero obiettivo.

Come può uno stato più debole rovesciarne uno più potente? Nell’Amleto, la Norvegia sostiene di combattere contro la Polonia, ma alla fine riesce a conquistare la Danimarca, una potenza che l’aveva sconfitta poco tempo prima. L’interpretazione forse fondata e convenientemente paranoica della professoressa offre una chiave di lettura interessante.

Oggi la Russia è impegnata in una guerra nell’Europa orientale e, attraverso questo conflitto, sta dominando la corte del suo rivale più potente: gli Stati Uniti. Con Trump al potere, Putin non ha più motivo di temere condanne per l’invasione o per i suoi crimini di guerra. Gli strumenti tradizionali per scoraggiare conflitti futuri, come processi, risarcimenti e dispiegamenti di forze militari, sono stati abbandonati senza chiedere nulla in cambio. Gli aiuti militari statunitensi all’Ucraina sono stati sospesi due volte e, a quanto pare, li lasceranno semplicemente finire.

Fortebraccio è un personaggio decisamente più affascinante di Putin; e Trump, a differenza di Amleto, non sembra essere per niente interessato al destino del suo paese. Ma anche i personaggi negativi possono avere difetti tragici, e quello di Trump è la vanità. A giudicare dalla conferenza stampa di Anchorage, Putin lo ha capito perfettamente. La trappola in cui è caduto Trump è stata preparata già nel 2016, quando il Cremlino ha avviato un’operazione per favorire la sua campagna presidenziale. Gli statunitensi tendono a rimuovere questa verità: Trump ha addestrato i suoi sostenitori a usare la parola “bufala”, e la stampa è stata bullizzata.

Gli Stati Uniti hanno la memoria corta e faticano a credere di poter essere ingannati da potenze straniere. Ma la strategia russa era concreta, e sia Putin sia Trump lo sanno bene. In Alaska, in una conferenza stampa senza domande, Putin si è soffermato sui suoi miti del passato, mentre Trump si è lamentato delle voci secondo cui la Russia lo avrebbe aiutato nel 2016. “Non è mai successo”, ha detto: chi sostiene il contrario, ha detto, è vittima di una bufala.

Dal punto di vista del Cremlino, Trump è sempre stato l’uomo della Russia. Già dieci anni fa, Mosca aveva tutte le ragioni per credere che da presidente avrebbe favorito i suoi interessi, un veicolo perfetto per seminare il caos e indebolire gli Stati Uniti.

Nel 2024, la stampa ufficiale russa ha ammesso candidamente che Trump rappresentava la più grande speranza della Russia per vincere la guerra in Ucraina. Qualunque altra leva potesse avere Mosca, il semplice fatto di averlo appoggiato in passato (insieme alla sua vanità personale) è sufficiente. Un altro leader avrebbe potuto affrontare la questione in modo diverso. Certo, mi hanno supportato, ma non importa, avrei vinto comunque; e ora che ho vinto dimostrerò alla Russia quanto sono indipendente.

Come Putin, Trump è un uomo profondamente cinico. E alla radice di questo cinismo c’è una convinzione molto ingenua: quella di aver fatto tutto da solo. Il bisogno di Trump di sottolineare che Mosca non lo ha mai aiutato lo tiene sotto il giogo dei russi che lo hanno aiutato. Putin può semplicemente dire che sì, era tutta una bufala. E così Trump e Putin possono ritrovarsi uniti nel risentimento per le terribili angherie subite. Il riflettore del martirio è riservato a loro due: siamo “noi” – come ha detto Trump ad Anchorage – la vittime delle ingiustizie. In tutto questo gli ucraini sono ignorati. In Alaska non si accennato al dolore autentico delle centinaia di migliaia di vittime mutilate o uccise.

La visione di Putin sull’Ucraina è folle, ma ha una sua logica. Definire l’Ucraina una “nazione sorella” significa sia rievocare l’antica storia di Rørek sia affermare un potere: io, signore della guerra e dittatore, posso trasformare il falso in vero, uccidendo e cancellando le prove contrarie. Trump non ha bisogno di capire il misticismo per trarne conforto. La Russia è una nazione antica, una grande potenza; deve poter fare ciò che vuole. È semplicemente l’ordine naturale delle cose, può dire a se stesso e a noi.

Forse non c’è da sorprendersi, dal momento che la storia di Amleto e quella di Rørek sono, in realtà, la stessa. Senza le saghe scandinave e le cronache della Danimarca e di Kiev, non avremmo il celebre dramma shakespeariano e i russi non avrebbero il loro mito fondativo. Bisogna conoscere l’arte per capire la politica delle dinastie mitiche e le sue folli conseguenze. Capire le storie significa vedere come l’inganno e l’autoinganno hanno dato inizio a una guerra e, ora, la prolungano e la aggravano.

Né la Cronaca degli anni passati né l’Amleto documentano i fatti nel modo in cui può farlo una conferenza stampa di due presidenti ad Anchorage. Ma, dice Amleto, “essere pronti è tutto”. L’arte ci prepara a capire: per esempio, che gli intrecci tra due uomini sono più importanti della politica che ci piacerebbe vedere, e che uno stato sta marcendo dall’interno. ◆ fas

Timothy Snyder è uno storico statunitense. Insegna alla Munk school of global affairs and public policy dell’Università di Toronto, in Canada. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Sulla libertà (Rizzoli 2025). Questo articolo è uscito sul Financial times con il titolo “The myths that made Putin’s war”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati