Le ultime lame di luce attraversano le nubi, veloci grumi grigi e cremisi in fuga dall’oscurità artica incombente. Costeggio un lago immobile e lucido: una lastra di onice incrinata dalla scia d’un uccello bianco con il becco affilato come una scheggia di vetro. Intorno tutto è nero: la strada, i monti, la distesa di lava e licheni, mischiati in una schiuma di roccia. La terra fuma, è viva, respira; il vento ghiacciato disperde i vapori in una landa di rovine postglaciali.

Da due ore guido verso l’estremo nordest dell’Islanda, senza incontrare un’auto. È una regione di centomila chilometri quadrati abitata da cinquecento persone. Non a caso negli anni settanta la Nasa portava qui gli astronauti a familiarizzare con la Luna. Poi la strada finisce e arrivo al Finnafjörður. Il cielo sopra l’oceano è ormai polare, schiacciato sulla calotta come un berretto di lana perlacea. Þórshöfn significa il porto di Thor, il dio dei vichinghi, anche se nemmeno i vichinghi vi attraccavano. Arrivando da est, aggiravano l’isola da sud. Un porto non c’è mai stato, ma ci sarà, gigantesco. E questo villaggio di 320 abitanti, pastori e pescatori di merluzzo e sgombro – gradevole novità del cambiamento climatico – si prepara a diventare entro una decina d’anni una città, un centro nevralgico della globalizzazione.

In paese per ora tutto gira intorno alla piccola flotta che porta a casa circa 22mila tonnellate di pesce all’anno. Il responsabile dell’impianto di lavorazione e spedizione è Siggeir Stefánsson. Camicia a quadri, barba grigia e aria stanca, seduto nel suo ufficio tappezzato di mappe, potrebbe essere un professore di geografia che ha appena tenuto una lezione. Invece Stefánsson, che non è mai uscito dall’Islanda ed è a capo del consiglio municipale, nel suo piccolo la geografia contribuisce a cambiarla: è il riferimento a Þórshöfn del consorzio internazionale che costruirà il porto, una delle grandi opere del nuovo Artico. Il progetto è finanziato dall’autorità portuale di Brema, in Germania, e da un consorzio d’imprese islandesi, ma ci sono anche capitali cinesi, di Singapore e fondi pensione statunitensi, come la Guggenheim Investments. Si parla di 15 miliardi di dollari.

La chiesetta luterana

La baia diventerà la porta della rotta transpolare da e per l’Atlantico del nord. Sei chilometri di banchina, in grado di accogliere i mercantili portacontainer cinesi lunghi 400 metri e larghi 60, duemila ettari di depositi per lo stoccaggio di petrolio e gas, stabilimenti per la trasformazione delle materie prime provenienti dal Canada e dalla Groenlandia, centri servizi, quartieri abitativi, hotel, scuole, banche, un aeroporto.

Le condizioni del Finnafjörður sono uniche: mare ormai libero dal ghiaccio tutto l’anno, 75 metri di profondità anche a ridosso degli scogli, poco vento, entroterra piatto e terreni a basso costo. “Hanno firmato tutti, è un’opportunità per incoraggiare i nostri figli a restare, per far arrivare gente, creare qualcosa di grande”, dice Stefánsson, illustrando il rendering del progetto appeso alla parete, accanto a un poster con le specie ittiche artiche e alle foto dell’ultima festa della cooperativa dei pescatori. “Ci stanno tutti, tranne loro. Sono contro il progresso, non vogliono novità”. E indica un lotto evidenziato in nero, proprio dove la baia spancia con un’ampia virgola.

Le pecore nere sono i pastori Reimar Segurjonsson, sua moglie Dagrun e i loro quattro figli. In paese si dice che l’ultima offerta sia stata di un milione di dollari. Quando li incontro alla fattoria Fell, che significa collina e infatti è l’unico sbalzo in questo tratto di costa, sono appena rientrati dalla funzione domenicale alla chiesetta luterana e mi offrono un agnello arrosto con rape e patate novelle. Accanto al camino, una libreria disordinata. Dalla finestra si vede la baia, immacolata e spensierata, ignara del suo destino. “Vogliamo solo che resti tutto com’è ora”, dice Dagrun Segurjonsson guardando gli altri negli occhi, compiaciuta della complicità che li tiene uniti. Parla per tutti. “Non vogliamo cambiare, ci piace il silenzio, la solitudine. Noi prendiamo la nostra barca, peschiamo quel che ci serve per mangiare. La maggior parte delle persone qui pensa che diventerà ricca. Ci chiedono: perché non vendete? Diventerete ricchi. Ma noi non vogliamo diventare ricchi. I pastori non vivono per i soldi, ma per la natura e per le radici. Questo posto abita nel nostro cuore”.

Sauðanes, Islanda (Marzio G. Mian)

Poi è arrivato il lunedì e un vento violento da nord, quasi solido, impregnato di ghiaccio. Dagrun Segurjonsson e i figli sono rientrati ad Akureyri, la piccola e vivace capitale del nord, città universitaria e uno dei centri logistici e finanziari del nuovo Artico, a tre ore d’auto da Þórshöfn. Scopro che Reimar Segurjonsson in realtà alla fattoria Fell, quattromila ettari che comprendono anche un lago, è rimasto solo, l’unico essere umano a vivere nella grande baia, nessuno con cui condividere lo struggimento per quell’incanto che non cessa di procurargli un groppo in gola. “La bellezza senza l’amore fa male”, dice con la voce rotta, e forse tra le gocce della pioggia ghiacciata che gli sferza il volto c’è anche qualche lacrima. Ha 48 anni, due matrimoni alle spalle, perché anche Dagrun, pur restandogli affezionata e senza tagliare i legami con la fattoria sul Finnafjörður, non ha retto a quella spropositata solitudine e al richiamo della città. È un uomo massiccio, due piercing al lobo sinistro, baffi e pizzo color carota, come i capelli, ma la frangia è stata tinta d’un rosso acido. In casa sembra timido, è di poche parole, i suoi movimenti sono impacciati, è goffo nello sbrigare le faccende in cucina; diventa invece se stesso nella stalla, tra le sue 370 pecore. Governa con gesti rapidi, si sposta senza esitazione con gli stivaloni sul tavolato scivoloso di letame e parla con passione e rabbia del suo mondo, perché quello sì è precario e rischia di scivolare via. Racconta che a maggio gli allevatori liberano le pecore tra le montagne dell’interno, che tornano a essere animali selvatici, partoriscono gli agnelli allo stato brado. Poi a ottobre si parte, è il rito millenario dello smölun, una sorta di transumanza vichinga: le famiglie della costa si riuniscono e salgono a cavallo per impervi tratturi alla ricerca delle greggi mescolate e disperse in territori vasti e ostili, “oltre la linea della vita, diciamo noi”. I mandriani spostano l’accampamento ogni giorno, la sera cantano in una lingua antica che non è più la loro, mangiano la testa di pecora bollita con le more. Migliaia di animali sono ricondotti a valle nei réttir, giganteschi recinti comunitari dove l’unico gregge viene separato in base ai marchi d’appartenenza, mentre gli agnelli sono macellati, pesati, venduti ai compratori venuti da Reykjavík. “Alleviamo pecore ormai solo per difendere la tradizione e la memoria degli avi, ma per noi è finita”, dice Segurjonsson. “I più bravi, quelli che hanno fino a mille capi, al massimo rientrano nelle spese, il fieno non è più buono come una volta, ora piove tanto perché il vento freddo dalla Groenlandia trova un mare più caldo, e il fieno marcisce, e poi gli agnelli li pagano sempre meno e il fertilizzante costa sempre di più, i sussidi del governo sono ridicoli, mentre gli islandesi consumano carne d’importazione che costa tre volte la nostra. Non esiste al mondo carne più sana di questa, l’acqua qui è speciale, mai usato un antibiotico in vita mia. Ma tutto sembra già stabilito perché il nostro mondo sparisca, siamo uomini scartati dal sistema. Cosa sta succedendo alla mia gente?”.

Mi mostra sul cellulare l’ultima modifica al piano regolatore. Gliel’ha inviata sua sorella Fridbiorg da Akureyri, dov’è assistente in un istituto psichiatrico. Lei l’ha ricevuta segretamente da un amico ingegnere alla Efla, la società di progettazione e consulenza internazionale di Reykjavík che ha una quota del 20 per cento nel progetto del porto di Finnafjörður. Si vede che la fattoria Fell è stata tagliata fuori, non è più pecora nera ma è tornata verde. Il porto si svilupperà sulle sponde nord e sud, segnate in rosso, mentre rispetto al rendering che ho visto nell’ufficio di Stefánsson, l’area logistica e industriale è molto più ampia.

Idrogeno liquido

“La battaglia l’ho vinta, non ho ceduto, non ho mai firmato niente. Ma loro sanno che perderò la guerra. Sarò assediato dal cemento, la mia terra confinerà con la zona industriale e la raffineria, sì la raffineria, perché ora sappiamo che lavoreranno qui il petrolio estratto nel giacimento dell’area Dreki, che dicono sia uno dei più grossi dell’Artico e che si trova là a nordest”, mi spiega Segurjonsson indicando con la forca un punto in mezzo al mare scuro. “Rientra nelle 200 miglia della zona economica islandese. Sappiamo anche che ci sarà un impianto per la produzione ed esportazione d’idrogeno liquido, parlano di lavorazione delle terre rare e dell’uranio estratti in Groenlandia. Dal comune non mi mandano più convocazioni, per Stefánsson e gli altri è come se fossi morto. Sanno che in un modo o nell’altro si prederanno la mia terra, magari a un certo punto sarà requisita dal governo. Amici di una vita che stanno in consiglio comunale mi hanno tolto da Face­book. Ma non sono più l’unico a rovinare i loro piani, molti che pensavano di aver vinto alla lotteria con il porto cominciano a sospettare. Ci sono cose troppo strane, troppe bugie”.

Durante una delle mie visite allo stabilimento ittico di Þórshöfn, Stefánsson – e forse l’ha sentito da quelli di Brema – paragona i Segurjonsson di Fell allo studente davanti al carroarmato in piazza Tiananmen: “Perderanno”, dice grattandosi nervosamente la barba. Prova rabbia, ma anche ammirazione per questi compatrioti pecorai fieri e anticonformisti. Nel nuovo Artico ho incontrato altri eroi antimoderni irremovibili davanti al profitto, uomini che difendono il loro diritto a non partecipare alla corsa. Ma il progresso non fa prigionieri, prendere o lasciare; e poi sa imbastire storie irresistibili, che attirano nella trama anche personaggi come Stefánsson, pescatore isolato in un paesaggio lunare, che ha vissuto – come i suoi avi – senza neanche immaginare altri mondi oltre quello ereditato, ma che improvvisamente diventa parte di un’avventura globale mozzafiato.

Vive il futuro in presa diretta. “È molto semplice”, dice stendendo con dimestichezza la mappa dell’Artico sul tavolo della mensa: “La distanza tra Rotterdam, il porto più trafficato d’Europa, e Yokohama in Giappone, è di 11.250 miglia nautiche passando dal canale di Suez. Scende a 7.350 miglia scegliendo la Northern sea route, lungo le coste artiche russe. Il Passaggio a nordovest, invece, anche se nella storia è stato il più sfidato nel tentativo di trovare la scorciatoia per l’Asia, è meno adatto alla navigazione commerciale, i tratti di mare tra le 36mila isole canadesi sono troppo stretti e le acque troppo basse. Comunque questo è il presente. Qui stiamo parlando d’altro”, dice puntando il dito al centro della mappa. Sembra voler accelerare lo scioglimento del polo nord con lo sguardo. “Questo porto nasce come terminal della via transpolare. Dal Pacifico del nord si passa lo stretto di Bering, quindi si raggiunge il polo nord, poi lo stretto di Fram e s’arriva proprio qui, la porta dell’Atlantico del nord. In totale sono 4.500 miglia nautiche. Evitare Suez e Panama navigando l’Artico significa evitare instabilità politiche, terrorismo, pirati. Ma la via transpolare, rispetto alla Northern sea route, fa risparmiare ancora più tempo, perché è molto più breve e le acque sono più profonde; inoltre si taglia fuori la Russia, con i suoi dazi, la sua arroganza e la sua burocrazia. Finnafjörður sarà la nuova Rotterdam”, dice il manager del baccalà prestato alla geopolitica.

L’arrivo del mostro

Reimar Segurjonsson, anche per dimostrare a Stefánsson, alla gente del villaggio e forse all’universo intero che non se ne sta fermo ad aspettare l’arrivo del mostro, cioè del futuro, ma che anche lui ha dei bei progetti al Finnafjörður, da un anno ha costruito un paio di piccoli chalet a metà collina per quei turisti, sempre più numerosi nei mesi estivi, alla ricerca delle poche aree dove non arrivano le comitive con i bus dei viaggi organizzati.

Io alloggio in una di queste spartane casette di legno. Una sera, mentre dal mare Artico comincia a soffiare una tempesta di neve, mi avventuro da Fell verso Þórshöfn, quindici chilometri sull’altra sponda delle penisola di Langanes, per raggiungere la pompa di benzina, il solo posto dove si riesce a mangiare qualcosa, perché l’unico ristorante, il Bàran, è chiuso. Cambio di gestione, dicono. A metà strada, dopo una breve salita e quando l’auto è ormai incontrollabile, all’improvviso mi trovo davanti un muro di neve. Il vento fortissimo ha rotto l’argine e in un attimo s’è creata la barriera, su cui vado a sbattere. Sono bloccato, non riesco nemmeno ad aprire le portiere e il telefono non ha campo.

Dopo circa un’ora arriva dal buio un pickup. Un uomo scende e si mette ad armeggiare intorno all’auto, mi libera con qualche colpo di pala, quindi aggancia un verricello e mi rimette in carreggiata. Si chiama Ægir Halldorsson. È un pescatore che sta andando a trovare il padre, pescatore anche lui, ma ormai fuori combattimento per problemi alla schiena. “Da noi la legge del mare funziona anche sulle strade”, dice Halldorsson. “È obbligatorio aiutare chi è in difficoltà”. Quando gli dico di cosa mi sto occupando e che provengo da Fell, mi invita a seguirlo dal padre al villaggio. La casa è linda, tutta bianca e rosa, piena di ninnoli e foto dell’isola di Grimsey, due ore d’aliscafo dalla costa, da dove proveniva la mamma di Halldorsson e dove la famiglia ha trascorso qualche anno. “In pochi anni lassù sono passati da cento abitanti a undici”, dice. “Le quote dei pescatori di Grimsey se le sono comprate le grandi compagnie. Ci vanno ormai solo gli scienziati a studiare il clima e la scomparsa dei pulcinella di mare, che sulla costa orientale nidificavano a milioni. Quando ero ragazzino con la rete ne catturavamo migliaia, erano l’unica carne disponibile sull’isola. Si nutrono di capelin, che stanno abbandonando il nostro mare, questa è la verità”.

Racconta che nel 2019 il governo ha tolto le quote del capelin perché era troppo scarso e che quasi certamente quest’anno succederà la stessa cosa. È un pesce tipicamente islandese, scende dalla Groenlandia tra febbraio e aprile per riprodursi al largo delle coste, soprattutto a nord. Negli anni normali Halldorsson e gli altri pescatori di Þórshöfn prendevano in media mille tonnellate al giorno di capelin. “Il mare è troppo caldo, secondo me non migrano più, restano in Groenlandia. Anche il merluzzo in questa stagione s’ingrassa con il capelin, è la sua preda preferita. Infatti il merluzzo islandese è più grande e pregiato di quello norvegese. Se non si accontenta dello sgombro e delle aringhe, il grande timore è che anche il merluzzo salga verso la Groenlandia. E allora addio, mi sparo con la fiocina qui, in mezzo al petto. Perché io sono figlio e nipote di pescatori, l’unica cosa che so fare e andare là fuori a pescare. Ma sai una cosa? Il merluzzo già non lo pesco più, perché a causa di questo vento che non smette mai e delle onde gigantesche ho fatto due sole uscite in due mesi. Dicono che è perché c’è sempre meno ghiaccio e il vento non trova ostacoli, ho rischiato la vita più volte negli ultimi tre anni. Il merluzzo per me vuol dire 500 chili a uscita, mantenere le mie tre figlie, andare ogni tanto a mangiare o bere qualche birra da Bàran, che secondo me è chiuso perché non ci va nessuno. In questa stagione era sempre pieno, erano i mesi grassi per noi pescatori, tante corone che bastavano per l’anno intero”.

Baia del Finnafjörður, Islanda (Marzio G. Mian)

Halldorsson guarda il padre Halldor con gli occhi spiritati, pieni d’angoscia. Quello risponde con due rumorose tirate di tabacco da naso che da un piccolo corno ha posato nella fossetta laterale del polso, estendendo il pollice deformato dall’artrosi. Halldor Halldorsson ha 64 anni, ma ne dimostra molti di più: è un uomo corpulento con una pancia che deborda dalla cintura, la folta barba fulva gli arriva al petto e l’occhio sinistro è semichiuso da quando aveva 17 anni: un incidente mentre navigava nelle acque di Terranova. Accarezza con le sue manone un cagnolino di razza papillon, anche lui addobbato con un vezzoso nastrino rosa. “Gli hai detto Ægir che anch’io non firmo più niente? Che nessuno firma più niente perché ci stanno prendendo per il culo, ci manipolano come burattini?”. Scopro che Halldor e i suoi tre fratelli laggiù al Finnafjörður sono tra i proprietari dei terreni a sud della baia, dove sorgeranno le banchine per i portacontainer. “A parte Reimar Segurjonsson, all’inizio abbiamo firmato tutti per dare il permesso alla prima valutazione d’impatto ambientale. Sono venuti quelli del porto di Brema a spiegare quanto sono bravi a fare tutte le cose pulite. Poi sono arrivati i manager dell’Efla a parlare dei milioni che avremmo incassato, del futuro delle prossime generazioni. Ma le carte che ci hanno presentato qualche mese fa in municipio parlano di affitto per 99 anni. Noi non possiamo recedere, ma loro sì. Secondo me quei marpioni hanno manipolato anche Stefánsson e gli altri del comune: poveretti, pur di fare il colpo del secolo hanno promesso ai pezzi grossi del posto che sarebbe stata una passeggiata, perché siamo ignoranti, miserabili e sprovveduti. Che poi è vero, alla fine se non firmeremo troveranno la legge per sequestrarci la terra. Confesso che ero contento che le cose potessero cambiare, dicono che il grande nord sta diventando il centro del mondo e che i nostri ragazzi non dovranno più andarsene, che il futuro è qui. Ora invece ho già nostalgia di come stavamo prima che questa storia del porto ci avvelenasse la vita”.

La questione è che il progetto del porto del Finnafjörður, come molte altre gigantesche operazioni di sfruttamento in Groenlandia, Alaska o nelle disumane vastità della tundra russa, non è un affare alla portata della gente semplice: è passato troppo poco tempo da quando la principale preoccupazione era sopravvivere in un ambiente ostile e l’unica ambizione quella di procurare da mangiare ai figli. Non importa se oggi sanno usare i social network o i sofisticati sonar digitali nei loro pescherecci, o se sono al corrente dell’andamento del prezzo del petrolio o sono tecnici specializzati o addirittura – come nel caso del governo inuit groenlandese che ho visto alle prese con le multinazionali delle estrazioni minerarie australiane, cinesi e sudafricane – sono ministri laureati che frequentano le cancellerie internazionali: non avranno mai la sufficiente malizia, l’adeguato cinismo per trattare alla pari con i rapaci colonizzatori del nuovo Artico. Facile immaginare, dopo aver conosciuto Stefánsson e altri amministratori locali, la disparità di esperienza e di obiettivi rispetto ai manager o agli studi legali internazionali che si presenteranno ai tavoli tecnici.

“Quelli del municipio non ci dicono le cose come stanno davvero, forse perché non lo sanno neanche loro, sono finiti in un gioco troppo grande. Resteremo tutti fregati, alla fine. Quel matto di Segurjonsson l’ha capito per primo”, dice Halldor Halldorsson. “Andrà come quella volta a Gunnólfvik”. Racconta che lui è nato nel lato nord della baia, erano 13 fratelli nella fattoria in cima a Gunnólfvik, un monte piatto a strapiombo sulla baia. La fattoria un giorno andò a fuoco e la famiglia, per il tempo necessario per ricostruire, si trasferì con il gregge dall’altra parte del Finnafjörður, comprando una piccola casa e un podere. Quando era tutto pronto per tornare, si presentò un funzionario del ministero della difesa dicendo che avevano bisogno di Gunnólfvik, avrebbero pagato il giusto. Gli statunitensi dovevano costruirci una stazione radar per spiare i sovietici. In realtà il prezzo era simbolico e i genitori di Halldor si rifiutarono di firmare. Finché furono espropriati. “Prima gli statunitensi e ora i tedeschi. Finnafjörður è maledetta”, dice. E si china a baciare il cagnolino, come per nascondere il volto.

Piani aziendali

In questa parte del pianeta il bicchiere del riscaldamento globale è mezzo pieno. E si brinda. Nel grande nord difendono il sacrosanto diritto di trasformare quello che per il resto del mondo è un problema in un’occasione storica irripetibile. Pianificazioni immaginifiche, piani aziendali, cantieri, bulldozer, investimenti. Brochure digitali annunciano un futuro adrenalinico, sembra fantaeconomia, ma è un mare d’opportunità grande quasi quanto il Mediterraneo: 14 milioni di chilometri quadrati. Più il ghiaccio si rompe, meno rotture di scatole per cavalcare l’onda. Come è stato nel nuovo mondo, anche nel nuovo Artico per immaginare una grande opera bisogna partire da quelle già costruite dall’ingegno umano nel passato. La Bremenports, l’azienda tedesca che guida il progetto islandese, nel piano di sviluppo fa riferimento al prestigio di Rotterdam nel commercio mondiale e vede un successo commerciale nel bacino artico simile a quello generato nell’Europa settentrionale dalla Lega anseatica, di cui Brema fece parte con altre cento città portuali a partire dal medioevo. Negli Stati Uniti, invece, il riferimento è il porto mercantile di Oakland. Una New Oakland è il sogno di Richard Beneville, l’eccentrico sindaco ex alcolista di Nome, sullo stretto di Bering, ed è la formula che gli investitori californiani stanno vendendo ad Adak, seimila abitanti, l’ultima isola delle Aleutine, più vicina al Giappone che all’America, ex base dei marines ai tempi di Pearl Harbor e ora in una posizione privilegiata per diventare la gemella di Finnafjörður sull’oceano Pacifico, l’altro terminal logistico della rotta transpolare.

Con l’operazione chiamata Dragone bianco Pechino punta a trasferire entro dieci anni il 20 per cento dei mercantili sulle rotte polari

Se l’85 per cento del commercio globale è via mare, l’80 per cento del trasporto marittimo è in mano alla Cina. Un monopolio che vale un miliardo di dollari al giorno. Con l’operazione chiamata Dragone bianco Pechino punta a trasferire entro dieci anni il 20 per cento dei mercantili sulle rotte polari. Parliamo di un valore commerciale complessivo di 100 miliardi di dollari all’anno. Il 90 per cento del commercio internazionale avviene tra Asia, Europa e Nordamerica, e l’Artico è la bretella di congiunzione fra i tre continenti. Secondo Frédéric Lasserre, professore di geopolitica all’università Laval di Québec, in Canada, Pechino è alle prese con il “dilemma di Malacca”. Gran parte del commercio cinese passa dallo stretto di Malacca, cioè tra la penisola di Malay e Sumatra, e poi attraverso lo stretto di Bab el Mandeb, cioè tra la penisola Arabica e il corno d’Africa. “I cinesi sono preoccupati che, se ci sarà in futuro qualche incidente politico o conflitto con gli Stati Uniti, questi stretti saranno bloccati. Per non parlare della crescente instabilità in Egitto, soprattutto per gli attentati del gruppo Stato islamico nel Sinai, che minacciano la sicurezza del canale di Suez. Quindi, per ridurre il rischio, la via migliore è sviluppare corridoi commerciali alternativi, via terra e via mare, per importare materie prime ed esportare sui mercati di riferimento. Loro ragionano per decenni, se non per secoli, come il Vaticano. Inoltre entro il 2030 la Cina avrà 1,5 miliardi di abitanti, che avranno bisogno di molte proteine, di tanto pesce. Pechino ha già annunciato che l’Artico sarà il suo frigorifero”, dice Lasserre.

Bancali fino al soffitto

Intanto quello della Ísfélag è quasi vuoto. È grande come un hangar. Affaccia direttamente sul porto di Þórshöfn, dove dovrebbero attraccare i cargo internazionali, soprattutto da Giappone, Corea, Cina e poi dalla Norvegia e dalla Scozia per caricare il mangime destinato all’industria del salmone. Ma ora funziona solo il trasporto del merluzzo congelato via camion e portato a Reykjavík. La voce di Gudmundur Björnsson rimbomba nel vuoto: “Fino a due anni fa in questi giorni i bancali arrivavano al soffitto, uno stoccaggio di tremila tonnellate solo di capelin, una media di quattrocento tonnellate congelate al giorno. Ora la media in transito nel capannone freezer è di dieci tonnellate di merluzzo al giorno. Solo ad agosto arriverà la stagione dello sgombro. Senza il capelin crolla tutto, rischiamo tutti il posto, qui ci lavora anche mia moglie, alla contabilità. Per fortuna mio figlio è capitano su uno dei nostri pescherecci del merluzzo. Non resta che sperare nel turismo o nel porto di Finnafjörður, vuol dire che i container sostituiranno il capelin. Con il cambiamento climatico si chiude un mercato e se ne apre un altro”, dice il responsabile delle vendite della Ísfélag, tra le dieci più grandi aziende di commercio e trasformazione del pesce in Islanda.

Era già arrivata una batosta con le sanzioni europee alla Russia, il maggiore mercato per il capelin, ma la perdita era stata in parte compensata dalle esportazioni in Polonia, Bielorussia e Ucraina. Il pesce dalle uova d’oro è la femmina del capelin, perché quel caviale dal colore giallo ocra è una ghiottoneria soprattutto per i giapponesi – è un piatto tradizionale nelle feste di matrimonio – ma anche per coreani e cinesi. Poi nel 2019 c’è stato il blocco della pesca: 50 milioni di euro persi solo qui a Þórshöfn. Negli uffici dell’amministrazione c’è nervosismo intorno al tavolo di Siggeir Stefánsson, e lo capisci dal rumore che fanno tutti sorseggiando il caffè dalle tazze fumanti. Seguono in diretta su un monitor il lavoro degli ispettori del ministero sulle navi inviate al largo delle coste islandesi per valutare gli stock di capelin e decidere se e quante quote consentire quest’anno. Anche gli operai aspettano con il fiato sospeso la sentenza (che sarà purtroppo di condanna, niente capelin neanche nel 2020).

Thorarinn Sveinsson, 50 anni, lavora alla Ísfélag da tre. Faceva l’allevatore, ma ha dovuto vendere quasi cinquecento pecore per saldare i debiti. Poi si è innamorato di una ragazza del paese piena d’iniziativa e l’ha sposata. Con lei ha provato a mettere in piedi un vivaio di alberi, secondo molti uno dei settori trainanti in Islanda nei prossimi anni (l’isola fu deforestata dai vichinghi e da allora sono cresciuti solo bassi arbusti, tanto che c’è il detto che se ti perdi nei boschi islandesi basta alzarti in piedi per farti trovare). Ma in questa parte di costa il vento è sempre più forte e gli alberi restano piccoli. L’unica soluzione, quindi, era fare come gli altri: entrare alla Ísfélag. Sveinsson è stato uno degli ultimi assunti. Tre anni fa, da gennaio a maggio, la fabbrica funzionava ancora 24 ore al giorno e sette giorni alla settimana. Un operaio guadagnava settemila euro al mese. Oggi più della metà della linea di lavorazione del fresco è ferma, mentre lo stabilimento della produzione di mangime e olio di pesce è chiuso. E lo stipendio medio è di 2.500 euro, che in uno dei paesi al mondo con il più alto costo della vita significa non solo rinunciare a qualsiasi extra – nel caso di Sveinsson per esempio rimettere i tre denti mancanti che gl’impediscono di sorridere come vorrebbe – ma anche non riuscire a mandare i figli a studiare ad Akureyri, visto che a Þórshöfn c’è solo la scuola dell’obbligo fino a 16 anni.

A queste latitudini, tuttavia, se con una mano il riscaldamento globale toglie, con l’altra fa un dono inaspettato e contribuisce a tessere con creatività i destini delle persone. Quello di Sveinsson si ostina ad avere la forma d’un tronco d’albero. Come altri pescatori, operai e allevatori di pecore part-time che vivono sulla costa, lungo la penisola di Langanes – una lingua di terra anfibia di selvaggia bellezza, santuario d’una trentina d’uccelli acquatici autoctoni – da un paio d’anni anche lui, con sua moglie, accumula, sega e commercia quel ben di dio che arriva sulla cresta delle violente onde dell’oceano Artico, cioè tronchi lunghi anche una decina di metri. Sono per lo più pini e larici siberiani, che i “boscaioli di mare” di Langanes distinguono grossolanamente in “legno bianco” e “legno rosso”. Montagne di tronchi consegnati all’Artico dai fiumi della foresta boreale siberiana e che le correnti, probabilmente alterate dal cortocircuito causato dalla febbre polare, fanno arenare su queste sponde a diecimila chilometri di distanza.

Sulle monete non sono raffigurati monarchi o artisti, ma merluzzi e naselli: l’economia è stata sempre agganciata alla pesca

“Molti pare siano antichissimi”, mi dice August, 42 anni, allevatore di 700 pecore e 60 cavalli a Sauðanes. “Erano imprigionati da chissà quanti secoli nei ghiacci della Groenlandia. Non riesci a piantarci un chiodo, sono come il ferro”. August, che si è costruito una segheria prevedendo di dover cambiare completamente mestiere, produce pellet con il legno bianco ed esporta quello rosso, il più pregiato, in Svezia e Norvegia, ma lo vende soprattutto a un famoso architetto d’interni di Berlino, di cui non vuole rivelare il nome. “Me lo paga duemila euro al metro cubo, spedisco un paio di container al mese”, mi confida August.

L’arrivo dello sgombro

La prima zanzara arrivò nel 2014 e fu la notizia d’apertura dei giornali islandesi. Lo sgombro di cui parlavo era arrivato invece a Þórshöfn e in tutto il nord dell’isola intorno al 2010, e la notizia fu vissuta come una benedizione dopo il crollo finanziario. Unico paese ad aver dichiarato insolvenza dopo la crisi del 2008, l’Islanda per rinascere s’è attaccata allo sgombro, mandato provvidenzialmente dal cambiamento climatico. D’altronde sulle monete non sono raffigurati monarchi o musicisti, ma merluzzi e naselli: l’economia è stata agganciata alla pesca fin dalla colonizzazione vichinga dodici secoli fa. L’Islanda è il laboratorio dell’occidente, forse per il privilegio, o la maledizione, di stare lassù, tra Europa e America, e di poter decidere liberamente cosa prendere e cosa scartare dei due continenti. “Tutti vogliono essere speciali, diversi e allo stesso tempo non restare tagliati fuori dal gioco globale. Noi siamo speciali e globali allo stesso tempo”, mi aveva detto nel 2004 Siv Friðleifsdóttir, all’epoca giovanissima ministra dell’ambiente. Eravamo nel suo ufficio di Reykjavík, addobbato con pernici bianche impagliate. “Le ho cacciate io. Non dimenticare che viviamo in un’isola dove i vulcani stanno dentro i ghiacciai. Influisce, non puoi essere banale in un simile paesaggio”, aveva aggiunto.

Si celebrava, con quel patriottismo un po’ folk tipico delle piccole nazioni, il sessantesimo anniversario dell’indipendenza dalla Danimarca. Ma, indirettamente, anche il terzo posto nella classifica mondiale dei paesi più competitivi, con un reddito medio pro capite di 65mila dollari all’anno. L’Islanda era chiamata la “tigre boreale”. Solo vent’anni prima era il paese più povero d’Europa, conosciuto come avamposto statunitense della guerra fredda. “Quando sono nato, proprio nei giorni dell’indipendenza, vivevo sulla costa occidentale in una casa con il pavimento in terra battuta, senza elettricità. Si campava di aringhe, mai vista una foglia di lattuga”, mi aveva confidato il coltivatore Bragi Einarsson, nella serra georiscaldata nella piana di Hverageroi. “Ed eccomi qui, produco banane e kiwi e ho una casa alle Bermuda”.

Tutti parlano l’inglese e sono in grado di leggere le saghe islandesi scritte mille anni fa. I vichinghi arrivarono con un libro sotto il braccio. La “terra del ghiaccio”, l’isola che a nord affaccia sull’oceano Artico, è l’unico angolo del pianeta a non aver mai conosciuto l’analfabetismo. L’Unione degli scrittori, in un paese di 320mila persone, ha quattrocento iscritti. Gli autori tradotti nel mondo sono quaranta: la più piccola nazione europea con la più alta percentuale di scrittori. “Divertente essere islandese, vero? Sei l’unico spettatore di un mondo che sta perdendo l’anima”, mi ha detto una volta Einar Már Guðmundsson. Il suo Angeli dell’universo aveva appena venduto 40mila copie.

Cascata dell’Aldeyjarfoss, Islanda (Pedre, Getty Images)

La swinging Reykjavík dei primi anni duemila, secondo il discografico Ásmundur Jónsson, scopritore di Björk, dei Sigur Ròs e dei Mùm, si spiegava con la scelta dei ragazzi di puntare sulla “diversità”. “I giovani”, diceva Gísli Pálsson, dell’istituto di antropologia, “s’identificano con l’idea di una terra pura, preistorica, isolata e allo stesso tempo avveniristica”. Una nazione fiera del proprio essere appartata che ha prodotto una totale identità di stirpe e cultura. La genealogia delle famiglie, attraverso le saghe, è documentata dall’anno mille. Un patrimonio per gli stregoni del genoma, tanto che gli islandesi sono diventati cavie, vendendo i diritti sul codice genetico a una multinazionale farmaceutica. Forse è lì che hanno cominciato a perdere l’anima e la testa. Il potere d’acquisto era cresciuto del 50 per cento in cinque anni, c’erano un paio di suv per famiglia, le uniche preoccupazioni erano il rumore dei jet privati, comprare un altro appartamento, organizzare il fine settimana a Parigi.

Finanza predatoria

Tutto finì in una notte, quando si scoprì che erano solo debiti: 160mila euro per islandese. La brusca conversione dal merluzzo alla finanza predatoria era stata pagata con un debito in moneta estera pari a dieci volte il pil. Un intero paese pignorato, l’umiliante intervento del Fondo monetario internazionale nel 2008. Di chi era la colpa? “Un turbocapitalismo guidato da una banda di uomini in eccesso di testosterone che ha mandato l’Islanda nel fosso”, mi aveva risposto secca Jóhanna Sigurðardóttir, prima lesbica dichiarata a guidare un governo. Una donna, ma per gli islandesi in quel momento era “santa Jóhanna”, unico riferimento nel paradiso perduto. Due anni dopo, nel 2011, mi aspettavo di trovare un paese ancora in difficoltà. Invece era già uscito dalla recessione, il pil era in crescita, i tassi d’interesse erano scesi dal 18,5 al 4,5 per cento, l’inflazione dal 15 al 3 per cento, la disoccupazione dal 10 all’8 per cento. Certo, il 60 per cento dei mutui era inesigibile e molti professionisti avevano lasciato l’isola, il welfare era stato massacrato dai tagli. Ma era tornata l’adrenalina, la follia. Il motto del paese era Þetta reddast! , tutto s’aggiusta. “Siamo un paese test, il luogo perfetto per fare esperimenti. Ricordati che siamo l’isola con i vulcani dentro i ghiacciai”, aveva ripetuto anche la ministra dell’industria Katrín Júlíusdóttir.

L’Islanda aveva ricominciato a macinare modernità. Il 99 per cento delle case era riscaldato con l’energia geotermica. La nazione dove i ciechi guidavano i sordi aveva scoperto l’antipolitica: nel 2010 Jón Gnarr, attore comico e dj, fu eletto sindaco di Reykjavík. Nel consiglio comunale arrivarono punk e menestrelli di strada. In un ex magazzino al porto fu aperta la Casa delle idee: “Pericolo di morte, democrazia eversiva” era l’avviso all’entrata. Infatti lì dentro l’attivista Julian Assange e il suo socio Daniel Domscheit-Berg si barricarono per due anni per costruire WikiLeaks. Lì è stata scritta la proposta di legge per trasformare l’Islanda nella Mecca del giornalismo d’inchiesta, un offshore dell’informazione a protezione delle fonti e a prova di querela. Il “ministero delle idee”, invece, aveva sede al caffè Solon, sulla Lugavegur, la via dei locali di musica dal vivo: era un gruppo fondato da Gudion Màr, ex informatico. “La General Electrics ha 327mila dipendenti, l’Islanda 322mila abitanti. Perché loro hanno una visione di sé e noi no?”, si era chiesto Màr. Così raccolse 1.500 islandesi nello stadio per tre giorni.

Intanto, però, nel nord dell’isola era scoppiata la vera rivoluzione, quella dello sgombro, riparato a quelle latitudini per sfuggire a un Atlantico sempre più caldo. Lo sgombro avvelenò i rapporti tra nazioni storicamente amiche, come l’Islanda, la Norvegia, la Scozia e l’Irlanda. Comunità norvegesi e scozzesi, che da secoli basavano la loro economia sullo sgombro, furono ridotte in miseria. L’Islanda, le isole Fær Øer e la Groenlandia riempivano le reti e i conti in banca. Mentre le Fær Øer siglavano un accordo con l’Unione europea e la Norvegia, l’Islanda e la Groenlandia dichiaravano che entro le loro 200 miglia marittime avrebbero fatto quello che credevano dello sgombro. Dopo l’insolvenza, quindi, erano tornati i padroni dell’isola, il pesce era di nuovo la prima voce del pil, come ai vecchi tempi. Intanto nelle reti comparivano specie mai viste nelle acque islandesi, come la platessa, il rombo giallo, la rana pescatrice e perfino il tonno.

Oggi il fenomeno sta sconvolgendo molte economie costiere tra l’Atlantico del nord e l’Artico. Gli astici scappano dalle acque troppo calde del Maine verso il Canada e il Labrador, dove gli abitanti si fregano le mani perché diventeranno presto ricchi. Invece il New England, negli Stati Uniti, rischia di perdere la sua bandiera, il simbolo su cui ha costruito la sua immagine e cultura marinara, il crostaceo sacro come la vacca in India, solo che finisce bollito. Il merluzzo atlantico, un predatore formidabile, sta occupando i territori del merluzzo artico – molto più pregiato e alla base della catena alimentare regionale – facendolo morire di fame. Il pollock punta a nord e si porta dietro il salmone, di cui è la preda preferita.

Akureyri, Islanda (Joaquin Gomez Sastre, NurPhoto/Getty Images)

Quello che succede sotto le acque artiche non è solo materia da biologia marina. Se il 60 per cento del pesce consumato negli Stati Uniti proviene dal mare di Bering e la stessa percentuale del mercato europeo attinge dalle riserve del mare di Barents, il pesce in generale diventa un animale politico in un pianeta che cresce di un miliardo di abitanti ogni 14 anni e ha un disperato bisogno di proteine. Arrivano nuovi predatori e batteri fantasma. Malattie finora sconosciute in acque fredde decimano aringhe e seppie. Si creano nuovi equilibri tra invasori e residenti, perché sta nascendo un nuovo mare con un ecosistema tutto da costruire.

Così la vulcanica e inquieta Islanda aveva riorientato le sue lunghe antenne e fiutato che questa storia del cambiamento climatico poteva essere l’affare del secolo. Nel giro di cinque anni ha girato le spalle all’Atlantico ed è rinata come nazione artica. Nella rete stavolta sono finiti milioni di turisti. “Guardati intorno”, mi disse un giorno Edward Hujbens, docente di geografia all’università di Akureyri. “In giro non c’è più un islandese”. Era la fine dell’estate del 2016, eravamo sulla collina che domina Reykjavík, sulla piazza davanti alla Hallgrímskirkja, la chiesa modernista luterana, unico edificio di qualche rilievo nella capitale, a parte la Harpa concert hall sulla baia, costata 200 milioni negli anni della sbornia finanziaria. C’erano circa trecento persone, tutte intente a fotografare un orrendo campanile.

Il turismo è cresciuto del 30 per cento negli ultimi cinque anni, del 50 per cento tra il 2016 e il 2017, con 2,3 milioni di presenze, circa sette volte il numero degli islandesi. Uno tsunami, di carne umana (almeno fino al 2019, poi sarebbe arrivato l’altro tsunami, quello degli effetti del covid-19 sul turismo internazionale). Nelle casse dello stato sono entrati circa sei miliardi di dollari all’anno, l’equivalente dei debiti accumulati con il Fondo monetario internazionale e i paesi scandinavi. La disoccupazione è al 3 per cento. Sembra un film già visto: i prezzi delle case sono saliti di più del 50 per cento perché tutti vogliono affittare ai turisti; Reykjavík è una selva di gru, i prezzi sono più bassi solo in Svizzera, il paese più caro del mondo. Per un tavolo da Dill, il ristorante di cucina artica alla moda e fresco di stella Michelin, bisogna prenotare due mesi prima. Fuori non è difficile rivedere le Bentley.

Il nuovo esotico

Gli ultimi dieci anni hanno sconvolto un mondo, quel che restava della mistica nordica, fatta di elfi, saghe e valchirie. Ora nel Valhalla entra solo la moneta straniera. La tigre boreale torna a ruggire sfruttando le conseguenze del cambiamento climatico: dalla costruzione, nell’estremo nordest dell’isola, del porto di Finnafjörður in vista dell’apertura della rotta transartica, all’affare di quello che Hujbens chiama turismo last chance, l’ultima occasione di vedere gli scampoli di Terra ancora remoti, di calarsi in quel che resta di paesaggio primordiale prima che sia colonizzato dalla globalizzazione ed entri nell’era geologica dell’antropocene. “È il nuovo esotico”, spiega. “Una volta erano le Fiji, Bali, la Patagonia. C’era l’orientalismo, con le sue palme, i profumi di spezie. Ora è il grande nord. Si paga per giocare al piccolo Amundsen, la comitiva diventa spedizione, si cerca la solitudine remota in gruppo. I visitatori vivono l’esperienza del selvaggio o la compassione per un ghiacciaio come fossero davanti alla gabbia del gorilla. Ma c’è anche altro: il richiamo d’esperienze ancestrali che ribolle nel nostro dna, la nostalgia per l’istinto che abbiamo annacquato nei millenni”. I turisti climatici inseguono il brivido degli spazi incontaminati invadendoli. È colpa – o merito, dal punto di vista delle casse islandesi – anche del terrorismo che li caccia da molte destinazioni classiche, e da tanti film ambientati nell’isola, come Game of thrones, ispirati dalla stessa mistica commerciale del remoto nord. Le comitive le trovi per lo più ammassate nel sudovest dell’isola, nel cosiddetto cerchio d’oro, che va dall’area geotermica di Geysir, le piscine termali della Laguna blu, il parco nazionale di Þingvellir, l’area vulcanica di Kerið alle cascate di Gullfoss. Al ghiacciaio Solheimajokull, il più vicino a Reykjavík, è impossibile scattare un selfie senza inquadrare altre persone.

Le stesse guide esplorano nuovi percorsi ogni giorno, perché il ghiacciaio cambia forma, si sfalda come il pongo: l’Islanda ha perso in quindici anni dieci chilometri quadrati di ghiaccio e venti metri di altitudine. “Sono avventure pericolose, da irresponsabili”, dice Hujbens. “Questa invasione ha conseguenze profonde. Intanto non siamo attrezzati, non ci sono neanche bagni a sufficienza. I turisti fanno i loro bisogni sui licheni e tra le rocce vulcaniche. Quello che angoscia è che la ricchezza spirituale islandese, l’isolamento che ha prodotto tanta letteratura e musica, stanno diventando merce”.

Da sapere
Le principali rotte navali
A causa del cambiamento climatico, nella zona artica i ghiacci ormai si formano non prima di settembre e si sciolgono al massimo a febbraio * Alla velocità media di 15 nodi (circa 28 chilometri orari)

L’Islanda ha fatto dell’Artico un marchio. L’ha spogliato dell’accezione colpevolizzante – un mondo fragile, sfregiato, sempre meno bianco – consegnandolo all’immaginario e al mercato come l’esotico di ultima generazione, il selvaggio a portata di tutti. “Paradossalmente”, dice Vilborg Einars, produttore di molti spot di grandi aziende sui ghiacciai islandesi e groenlandesi, “la vittima più simbolica dell’inquinamento umano è stata trasformata in un marchio che vuole comunicare purezza, freschezza, natura incontaminata. Per le aziende vuol dire: siamo responsabili, etiche. Nel metatesto della comunicazione arctic oggi funziona meglio di green”. Oggi a Reykjavík tutto ciò che vuole trasmettere un senso di contemporaneo è arctic: gallerie d’arte, catene d’hotel, locali, alcolici, design; un marchio di fuoristrada per gli eserciti scandinavi ha cambiato nome in Arctic Trucks. E pensare che in islandese non esiste neanche la parola. L’oceano Artico è Norður-Íshaf, il mare ghiacciato del nord.

“Non abbiamo mai guardato a nord, la nostra cultura è profondamente atlantica. Ci siamo sempre divisi tra filoeuropei e filoamericani; la Groenlandia, che sta a settecento miglia, era un mondo misterioso quanto la Siberia o la Pampa argentina, un’isola più lontana di Manhattan. Ora abbiamo girato le spalle all’Atlantico. Siamo improvvisamente un paese artico”, dice Alldór Jóhannsson, fondatore di Arctic Portal, una piattaforma finanziaria di consulenza e investimenti nella regione. È lui che ha fatto da tramite tra il consorzio del porto di Finnafjörður e gli investitori asiatici e statunitensi.

Palcoscenico globale

Come tutte le aziende islandesi che hanno a che fare con lo sfruttamento del nuovo Artico, anche quella di Jóhannsson si trova a Akureyri, sulla costa settentrionale. Era un depresso centro ittico, con qualche industria legata alla produzione dell’olio di merluzzo e all’alluminio, oggi è un centro cosmopolita, accademico e finanziario. I cento corsi delle facoltà legate agli studi polari – soprattutto di diritto internazionale e del mare – ospitano studenti provenienti da sessanta paesi. I master di Akureyri inseguono il prestigio di altre arctic university, come quella di Tromsø in Norvegia e di Archangelsk in Siberia. In questa cittadina di diciottomila abitanti, dietro ogni scrivania, ma anche nei pub e negli ostelli, imperversano, come segno più economico che identitario, planisferi zoomati sulla pelata terrestre. Il centro del mondo è il polo nord e quel che gli gira intorno: mappe artiche d’ogni sorta e per ogni uso, delle rotte mercantili, dei siti minerari e petroliferi, dei migliori ristoranti, delle agenzie per i safari polari con i cani da slitta o per la pesca al salmone. E naturalmente ci sono crociere. Il turismo last chance che sta invadendo tutta la regione ed è forse l’aspetto più grottesco della mercificazione del nuovo artico, la spia d’allarme sullo stato della mente contemporanea. Ad Akureyri nel 2019 ci sono stati 340 attracchi e sono transitati in città 400mila passeggeri. “Sono navi a vapore costruite per navigare nel Mediterraneo, ai Caraibi, al massimo lungo i fiordi della Norvegia d’estate. Se succede qualcosa, anche in agosto o settembre, la sopravvivenza in acqua non va oltre le due ore”, avverte Jóhannsson, uno spregiudicato che sa riconoscere gli avventurieri, specie quando sono al timone. “Queste navi che trasportano migliaia di persone e tonnellate di gasolio, in Groenlandia s’avvicinano agli iceberg quasi a toccarli. Devono solo sperare che in caso d’incidente ci sia un peschereccio nelle vicinanze. Perché un normale soccorso impiegherebbe almeno tre ore per arrivare sul posto, sempre che funzionino le comunicazioni”.

L’Università di Akureyri nel 2019 stimava che entro quest’estate – non potevano prevedere il virus che ha spento i motori di navi e aerei in tutto il mondo – sarebbero stati tre milioni i passeggeri a navigare nell’Artico e le mete più gettonate Islanda, Alaska, Canada, le isole dell’Artico russo. In Groenlandia, a Qaqortoq, villaggio di cacciatori di foche, ho visto attraccare nel piccolo porto un bastimento tedesco, l’Aida, e scendere in fila indiana ottocento turisti. Gli inuit si chiudevano in casa, i forestieri bussavano per curiosare. Alle Svalbard nell’agosto 2019 si sono registrate 190 navi da crociera intorno all’arcipelago. Da Murmansk, in Russia, due volte alla settimana partono i rompighiaccio nucleari di stato con una ventina di ricconi diretti al polo nord. Il quotidiano britannico The Guardian ha evocato il fantasma del Titanic quando una gigantesca nave di lusso della flotta Crystal, la Serenity, ha inaugurato il passaggio a nordovest nell’agosto 2016: trentasei giorni, da Seward, in Alaska, a New York, costeggiando il Canada dopo una toccata e fuga in Groenlandia. “Scopri il più remoto ecosistema del mondo, nel comfort di una piscina calda su uno dei quattordici ponti e con uno chardonnay in mano”, scriveva la compagnia californiana promuovendo la “spedizione”. Mille passeggeri, 720 membri dell’equipaggio, costo tra i 20mila e i 120mila dollari a “esploratore”.

“Ho acquisito e nutrito un rancore che potrebbe anche durare tutta la vita”, scrisse David Foster Wallace nel suo celebre reportage sulla crociera ai Caraibi, Una cosa divertente che non farò mai più. Sulla Serenity sarebbe stato ancora più cattivo. Se l’Islanda è una sineddoche, una parte per il tutto, delle opportunità e degli opportunismi che affollano il nuovo mondo, la regione del nordest intorno al Finna­fjörður, la più remota, disabitata e arcaica dell’isola, sembra essere stata catapultata dai margini estremi della storia umana in cui ha vissuto per mille anni direttamente nella contemporaneità globale.

Oggi qui arrivano personaggi come Jim Ratcliffe, imprenditore britannico della chimica che qui, nell’area che fa capo a Þórshöfn, si è già comprato l’equivalente di almeno l’1 per cento dell’intera Islanda. Terra, tanta terra, soprattutto quella dove scorrono i fiumi risaliti dagli ultimi salmoni selvaggi del pianeta. Lui sostiene che vuole salvarli, ma quei pochi proprietari che non hanno ceduto alle sue offerte milionarie parlano di land grabbing camuffato d’ambientalismo. “L’inglese”, come lo chiamano, per alcuni è una benedizione che li salva in extremis prima d’essere sfrattati dalla modernità, per altri è il nemico pubblico numero uno. E su questo Siggeir Stefánsson, l’amministratore locale che sogna il porto transpolare che cambierà la geografia, e Reimar Segurjonsson, l’allevatore di pecore solitario davanti al carro armato del progresso, sono d’accordo. Entrambi sostengono che “l’inglese” non fa altro che investire in uno dei territori più preziosi del mondo, perché è pieno d’acqua pura, il petrolio del futuro, perché sarà dotato d’un porto degno d’una nuova Rotterdam e perché il nord, grazie al cambiamento climatico, sarà sempre più abitabile e quindi sarà sempre più abitato.

La sera prima di lasciare Fell, davanti a una grappa di licheni, ho chiesto a Segurjonsson cosa ne sarà di quest’angolo di mondo tra dieci anni. “Saremo la Palestina del nord”, ha risposto. “Io e Siggeir saremo ospiti sgraditi a casa nostra”. ◆

Marzio G. Mian è un giornalista italiano.
È tra i fondatori dell’associazione non profit The Arctic Times Project, che realizza inchieste sull’Artico. Ha scritto Artico. La battaglia per
il grande nord
(Neri Pozza 2018) e Tevere controcorrente (Neri Pozza 2019).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1369 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati