Con l’apparecchio per i denti e i colpi di sole, negli anni ottanta probabilmente sembravo una ragazzina come tutte le altre nella mia scuola media di periferia, però sapevo che in me c’era qualcosa di diverso. Avevo tredici anni quando mi accorsi di certi comportamenti che assomigliavano al disturbo ossessivo-compulsivo (Doc), anche se all’epoca non sapevo che si chiamasse così.

Era l’estate prima delle superiori, l’epoca dei film di formazione come St. Elmo’s fire e Breakfast club. Io e le mie amiche eravamo fissate con i giovani attori del cosiddetto brat pack, come Emilio Estevez, Judd Nelson e Rob Lowe. Spendevamo la paghetta e i soldi che guadagnavamo come baby­sitter comprando granite (metà coca-cola e metà panna) e riviste. Quando restavamo a dormire insieme sprofondavamo nella lettura di giornali come Teen Beat, passando ore a discutere di cosa cercasse in una ragazza la star dei Ragazzi della 56 a strada, Matt Dillon, o a decidere quale foto di attore a torso nudo avremmo attaccato nel nostro armadietto a scuola. Io non riuscivo mai a ricordare la combinazione del mio armadietto, ma ero precisa al centimetro se mi chiedevano quanto era alto Rob Lowe.

Amare i personaggi di un film di John Hughes non era un vero e proprio comportamento ossessivo, o quanto meno non più ossessivo di quello di tutte le altre ragazze che conoscevo. Ma scommetterei una gigantografia di Judd Nelson che ero l’unica del mio gruppo di amiche a essere confusa e preoccupata dalla necessità di svegliarmi varie volte ogni notte per controllare la mia pila di Teen Beat sul comodino. Il mio rituale notturno consisteva nell’accertarmi che nessuna pagina delle riviste si fosse piegata o fosse rimasta casualmente danneggiata durante la lettura e l’impilamento che precedevano il sonno. Sollevavo ogni rivista, verificavo che fosse perfettamente a posto e la rimettevo sul mucchio, che doveva essere in un certo angolo del comodino.

Trentasei anni dopo, la mia mania di controllo continua, solo che non sono più le gigantografie degli attori a consumarmi. Controllare è un rituale frequente nel disturbo ossessivo-compulsivo, insieme a contare, tamburellare, pulire e lavarsi le mani. La gente crede spesso, sbagliando, che tutte le forme del disturbo si riducano a questo. Negli Stati Uniti, quasi una persona su cento soffre di disturbi ossessivo-compulsivi, e quasi la metà dei casi sono gravi. In Canada è l’1 per cento della popolazione. Io faccio parte di questi canadesi. Perdo ore ogni giorno per vari rituali di controllo, come accertarmi che il rubinetto della vasca non goccioli e il portone di casa sia chiuso a chiave.

La maggior parte delle persone con forme cliniche di Doc soffrono insieme di ossessioni e compulsioni, ma sono queste ultime – come contare e controllare – a essere sempre al centro dell’attenzione quando questa condizione appare negli spettacoli o sui mezzi d’informazione popolari. Spesso sullo schermo le compulsioni servono a far ridere, come quelle del personaggio di Bill Murray in Tutte le manie di Bob, ossessionato dai “passi di bimbo”. Qualche tempo fa un amico mi ha mandato un elenco di personaggi famosi affetti da Doc, o da quello che i giornalisti considerano tale: includeva il fatto che Cameron Diaz apre le porte con i gomiti. Il Wall Street Journal ha usato il titolo “Ora abbiamo tutti bisogno del Doc!” per un articolo sul covid-19 e la necessità di lavarsi spesso le mani. Finalmente la mia debilitante malattia richiamava l’attenzione!

Le ossessioni – i pensieri intrusivi che provocano le compulsioni – sono relativamente meno discusse. Quando cerco di spiegare agli altri il mio disturbo, non capiscono i timori e le ansie che scatenano le compulsioni e cosa vogliono ottenere queste azioni ripetute. Non controllo i rubinetti perché ho una passione per il loro design, lo faccio perché è l’unico modo di calmare il mio cervello.

Una volta ho sentito descrivere il disturbo ossessivo-compulsivo come avere in testa un disco che salta. La routine di controllo che seguo prima di uscire di casa può durare da trenta minuti, in una giornata buona, a due ore quando le cose non vanno bene. Nella mia testa c’è una voce che non vuole andarsene e continua a ripetere: “Devi controllare lo sportello del frigo per essere sicura che sia chiuso, o il frigo si sbrinerà. Tutte le tue provviste andranno a male e la tua cucina sarà inondata. Questo distruggerà il tuo appartamento e quello di sotto”. Non devo colpire con il piede la borsa strapiena di cose da riciclare che sta proprio di fronte al frigo. Se il mio piede la colpisce, la mia routine per controllare che sia tutto a posto si scombina, e devo ricominciare da capo. Controllare ripetutamente che la porta sia chiusa contribuisce a placare le mie paure sui disastri che potrebbero acca­dere se rimanesse aperta. Questi timori possono sembrare irrazionali e perfino ridicoli, ma per me sono molto concreti.

Giacomo Bagnara

Il mio disturbo ossessivo-compulsivo mi fa sentire una cattiva amica, una cattiva collega e una cattiva figlia. Non riesco a essere puntuale e ho la sensazione di giustificarmi in continuazione perché sono in ritardo. Non riesco a viaggiare con disinvoltura e quando è possibile evito di farlo. Se devo proprio fare un viaggio, comincio a preoccuparmi con mesi di anticipo. La mia routine per uscire di casa non è niente in confronto a quella che precede la partenza per le vacanze. Cancello spesso i miei progetti per evitare di partire: il pensiero di tutti i controlli è troppo estenuante.

Di conseguenza, mi isolo. Vivo nella paura che la gente rida di me. Evito di avere una relazione perché non riesco a immaginare una persona che resti a casa mia per la notte. “Va’ pure a dormire, arrivo tra un paio d’ore, dopo aver controllato più volte le finestre per accertarmi che siano chiuse, perché ho paura che qualcuno scali il muro del palazzo, si arrampichi fino al terzo piano, tagli le zanzariere e penetri in camera da letto per ucciderci”. Chi ha voglia di una storia d’amore così?

Le rappresentazioni del disturbo ossessivo-compulsivo che appaiono sui mezzi d’informazione e nella cultura popolare non aiutano a superare gli equivoci che lo circondano. Le persone con Doc di regola vengono ritratte come maniache dell’igiene, macchine ad alta produttività o pazzoidi strampalate. Se ve lo state domandando: no, non seguo una complessa procedura per pulire i pavimenti come Faye Dunaway in Mammina cara e non passo la giornata a evitare di camminare sulle giunture del selciato come Jack Nicholson in Qualcosa è cambiato. I ritratti stereotipati tendono a ignorare i ragionamenti sfumati, spesso strazianti che precedono i rituali. Di conseguenza è diventato frequente, e perfino accettabile, affibbiare l’etichetta di ossessivo-compulsivo a chiunque ami l’ordine o tenga pulita la casa.

“Sono davvero ossessivo” è diventata una battuta per definirsi organizzati o puliti. La prima volta che l’ho notato ero in una riunione di lavoro e guardavo la donna seduta di fronte a me che toglieva le matite da un astuccio e le allineava con cura davanti a sé. Nessun altro sembrava accorgersene. Le chiesi se avesse un disturbo ossessivo-compulsivo, rispose di no. Mi disse che le piaceva semplicemente sistemare le matite in ordine di colore.

Le vere sofferenze di chi è affetto dal disturbo ossessivo-compulsivo sono state sostituite dall’umorismo. Per esempio, la catena di negozi Target ha messo in vendita un maglione con la scritta “Obsessive Christmas disorder”.

Sembra che gli uffici marketing non si stanchino mai della mia malattia mentale. La mia casella di posta in entrata è spesso piena di email con quiz ed elenchi come “33 trucchi per una pulizia meticolosa dedicati alla donna compulsiva che è in te” e “Cinque tipi di amici compulsivi che conosci e ami”. Ho sentito gente dire scherzando che avrei dovuto andare a casa loro per fare delle belle pulizie, come se la mia malattia fosse un flacone di candeggina. Khloé Kardashian qualche tempo fa ha parlato di come il suo disturbo ossessivo-compulsivo, che non le è mai stato diagnosticato, l’aiutasse ad avere biscottiere piene di Oreo disposti in ordine perfetto e armadi con i vestiti organizzati secondo colore e tipo. E lo ha trasformato in una macchina da soldi, con post sponsorizzati sul suo feed di Instagram. Sarebbe la concorrente perfetta per Obsessive compulsive cleaners, un reality britannico dove persone con diagnosi di Doc si uniscono per pulire case particolarmente sporche. Rappresentazioni di questo tipo fanno apparire il disturbo ossessivo come una fortuna, non una maledizione.

La routine di controllo che seguo prima di uscire di casa può durare da trenta minuti, in una giornata buona, a due ore quando le cose non vanno bene

Ho molte critiche da fare alla serie televisiva Girls, ma la descrizione del disturbo ossessivo-compulsivo del personaggio di Hannah Horvath è la più realistica che abbia mai visto. L’autrice della serie, Lena Dunham, ha parlato apertamente del proprio disturbo e delle sue ansie, su cui si basano le esperienze del personaggio di Hannah. Fortunatamente, Dunham non ha fatto del Doc il tratto dominante della personalità di Hannah (che è il suo assoluto narcisismo). La vediamo che tira fuori dal sacchetto otto patatine e le allinea accuratamente sul tavolo della cucina, poi le raccoglie e se le infila in bocca, masticando otto volte prima di ingoiare. Ci sono altre cose che vanno a gruppi di otto: batte le palpebre otto volte e apre e chiude la porta otto volte prima di entrare in casa. Alla fine va da un terapista e gli descrive i suoi rituali e come la tengono sveglia fino alle ore piccole facendola sentire una zombi il giorno dopo. Quando ho visto quell’episodio, mi è sembrato che stesse descrivendo me. Ero così sollevata di riconoscermi finalmente in un personaggio con un Doc che sono scoppiata a piangere.

Non è solo la mancanza di rappresentazioni realistiche di questo disturbo a darmi fastidio. Qualche tempo fa ho visto un vecchio episodio di Sex and the city in cui Carrie Bradshaw si prepara a partire per un viaggio. Finisce la sigaretta, preme leggermente il mozzicone in un posacenere, afferra la valigia ed esce di casa. Non so cosa succeda dopo perché non sono riuscita a concentrarmi sul resto dell’episodio. Continuavo a pensare: “L’avrà spenta bene la sigaretta? Sicuramente quella leggera pressione non è bastata. Non ha neppure controllato. E se l’appartamento va a fuoco?”. Al suo posto, io avrei gettato il mozzicone nel water e tirato lo sciacquone, avrei lavato più volte il posacenere e l’avrei lasciato pieno d’acqua nel lavandino. Dopo queste precauzioni lo avrei ripetutamente fotografato con il cellulare nel caso più tardi mi fosse venuto il dubbio di aver spento davvero la mia sigaretta. Il disturbo ossessivo-compulsivo di fatto mi stava rovinando Sex and the city.

Qualche settimana fa mi sono resa conto di aver passato tre mesi senza usare i fornelli. Dietro c’era una logica: se non li accendevo non dovevo preoccuparmi di controllarli. Se dovevo riscaldare qualcosa da mangiare usavo il forno a microonde o l’acqua di un bollitore elettrico, oppure non mangiavo per niente. Poi ho cominciato a pensare che dovevo controllare il microonde e il bollitore, e a quel punto sono passata ai panini e ai cereali. Il mio Doc mi è costato tanti bei momenti e tante occasioni.

Ho talmente paura della mia routine di controllo del mattino che resto a letto anche se la sveglia è già suonata da un pezzo, pensando a tutti i rituali da compiere. Rimango sdraiata il più a lungo possibile fissando il soffitto, ascoltando i vicini al piano di sopra che corrono per la casa. Abito in un vecchio palazzo, dove ogni trave scricchiola e ogni passo rimbomba. So che alla mia vicina serve meno di un’ora per prepararsi, e la invidio per questo. Ma mi dà anche sui nervi, e non solo perché a quanto pare le piacciono gli zoccoli. Vorrei disperatamente essere qualcuno che la mattina si precipita fuori di casa, una persona che afferra le chiavi ed esce senza tante storie.

Prima della pandemia, quando lavoravo ancora in ufficio, evitavo le riunioni del mattino presto perché non riuscivo neanche a immaginare a che ora avrei dovuto alzarmi per arrivare alle nove. Avevo sempre una sfilza di scuse già pronte, precise come “il dentista” o vaghe come “un’altra riunione”, ma di rado erano vere. Sono molto fortunata ad avere colleghi davvero molto comprensivi e un lavoro in una piccola rivista di sinistra che non m’impone di essere alla scrivania dalle nove alle cinque. Però mi sarebbe piaciuto partecipare alle riunioni del mattino e mi sentivo sempre una fallita perché non ci riuscivo. Avrei voluto essere una di quelle persone che ogni giorno passa al bar accanto all’ufficio per mangiare frutta e cereali e leggere il giornale prima che cominci la giornata di lavoro. Sogno di essere una di quelle scrittrici che la mattina lavorano per due ore prima di mettere piede nella doccia. Ma non ce la faccio. Per cominciare, dovrei accendere il computer e vedere se funziona tutto bene, e questo significherebbe aggiungerlo al già lunghissimo elenco delle cose da controllare.

Prima di entrare in metropolitana per andare al lavoro ero già esausta. Aspettavo nel mio appartamento sudando nel cappotto, guardando dallo spioncino della porta e tendendo l’orecchio fino a quando sentivo i miei vicini di casa andarsene. Non volevo che mi vedessero davanti alla porta di casa mentre controllavo e ricontrollavo la serratura, spingevo la porta e appoggiavo il borsone sul pavimento per poterla spingere con entrambe le mani. Avevo il terrore che qualcuno mi scoprisse sul pianerottolo mentre tornavo indietro e ricontrollavo tutto da capo.

Nei periodi peggiori del mio disturbo, tutte le cose che faccio in un giorno , per quanto importanti e appaganti possano essere in altri momenti, mi appaiono come interferenze tra un controllo e l’altro. Quando ero in ufficio, che ha una lista di cose da controllare completamente diversa dal mio appartamento, spesso lavoravo fino a tardi, molto più del necessario, solo per evitare di dare inizio alla routine di fine giornata.

Quando non mi dice che devo osservare il fornello per accertarmi che sia spento altrimenti il mio appartamento prenderà fuoco, la voce nella mia testa mi dice che sono imperfetta, che sono una fallita perché non riesco a farla tacere. Allora mi costringo a lavorare di più, a fare meglio e a ottenere più risultati. Sono così delusa da me stessa che incanalo la mia frustrazione nella ricerca di un livello di perfezione quasi impossibile. Lo stress peggiora le cose. Quando non posso controllare tutto, mi concentro sulle mie compulsioni, che a volte sembrano l’unica cosa che riesco a tenere sotto controllo.

Una cosa che so di non poter controllare sono le lunghe, scoraggianti liste di attesa per entrare in terapia. Sono in molte liste da più anni di quanti ne ha passati Khloé Kardashian a mettere in ordine i suoi biscotti. Quando una persona ha finalmente accesso a un sostegno terapeutico, restarci può avere costi proibitivi. Ho risparmiato un sacco di soldi mangiando panini e cereali per mesi, ma non abbastanza per potermi permettere un aiuto. A Toronto, dove vivo, la terapia può costare fino a 175 dollari l’ora. Le risorse online servono solo fino a un certo punto. E può essere difficile mantenere una potenziale rete di supporto di familiari e amici. Anche se cerco di essere aperta e sincera sul mio disturbo, quello che ho condiviso è servito solo a sentirmi dire che dovrei “superarlo” o “smetterla”, come se fosse facile. Ho anche avuto un amico che mi dava regolarmente cd di artisti con il Doc, come Fiona Apple e Joey Ramone. Immagino che volesse essere una forma di aiuto, ma non avevo idea di cosa avrei dovuto farmene. Un interludio musicale tra i controlli?

Le lunghe liste d’attesa per entrare in terapia devono finire, ma anche le rappresentazioni irrealistiche fatte dalla cultura popolare. Quelle accurate, capaci di mostrare sia le ossessioni sia le compulsioni, aiutano a capire cos’è il disturbo ossessivo-compulsivo e fanno sentire più a loro agio nel parlarne le persone come me, senza il timore di essere derise o ridotte a uno stereotipo. ◆ gc

Lisa Whittington-Hill è una giornalista canadese. Questo articolo è uscito su The Walrus con il titolo Ocd is not a joke.

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Questo articolo è uscito sul numero 1410 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati