Un mese dopo la prima elezione alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump sono finalmente andata da Books to prisons, un progetto di Washington che spedisce libri ai detenuti. Avevo in mente da tempo di partecipare a uno dei loro incontri mensili di orientamento, ma solo il tracollo emotivo postelettorale mi ha spinto all’azione. Nel dicembre 2016 sono scesa nel seminterrato della chiesa dove si ritrova l’organizzazione non profit che invia gratis dei libri ai detenuti di tutto il paese.

Susan, una volontaria dalla voce dolce, ha rapidamente spiegato come funziona: si leggono le lettere delle persone detenute, si cercano sugli scaffali i libri ricevuti in donazione che più si avvicinano alle richieste, poi si scrive una breve risposta. Subito dopo mi hanno lasciata sola davanti a una scatola stracolma di posta.

Spedire libri in carcere richiedeva entusiasmo, ma anche una solida conoscenza del sistema carcerario, della censura, del servizio postale e di un’ampia varietà di generi letterari

Non ricordo nessuna delle lettere a cui ho risposto quella sera, ma sapevo che sarei tornata, mi sentivo nel posto giusto. Leggevo quasi cento libri all’anno, quindi avevo una buona base. Da anni cercavo un posto dove fare volontariato, ma poi finivo sempre per sentirmi a disagio: per un motivo o per l’altro, non funzionava mai. Questa volta però era diverso. Potevo essere utile in un mondo che, all’improvviso, sembrava senza speranza.

Mi ci sono buttata a capofitto scoprendo subito che spedire libri in carcere richiedeva entusiasmo, ma anche una solida conoscenza del sistema carcerario, della censura, del servizio postale e di un’ampia varietà di generi letterari. Questo aspetto mi è diventato chiaro quando mi sono resa conto che i generi più richiesti, come thriller, western e romanzi, erano proprio le lacune della mia esperienza di lettrice. Per rispondere meglio a quelle lettere, ho cominciato a leggere i generi più popolari: un vero compito a casa che mi sono autoassegnata e che, alla fine, ha ribaltato le mie idee sui meriti letterari, trasformando la mia identità di lettrice, scrittrice e persona.

Le migliaia di lettere che ho letto da quel giorno mi hanno costretta a confrontarmi con i miei pregiudizi letterari. Mentre molti lettori nel mondo, qualunque sia la loro situazione, leggono senza problemi ciò che li appassiona davvero, io avevo inconsciamente rinchiuso le mie scelte in mura invisibili di legittimazione culturale.

Me ne sono resa conto non grazie a una speciale saggezza dei lettori incarcerati, ma perché improvvisamente ero esposta a letture fuori dei miei schemi. La mia reazione alle lettere, espressioni sincere d’interesse senza l’ingombro delle preoccupazioni di prestigio culturale, rivelava quanto avessi interiorizzato l’idea che alcuni libri fossero più “degni” di altri.

Lettera dopo lettera, mi veniva mostrata una serena indifferenza verso quella tirannia invisibile del gusto che stabilisce cosa “dovremmo” o addirittura “dobbiamo” leggere. Molti lettori detenuti, come tanti fuori delle mura del carcere, chiedono semplicemente libri che rispecchino i loro interessi. Non c’è ostentazione di raffinatezza letteraria, ma solo un autentico desiderio di storie che emozionino, intrattengano e diano piacere.

Amici e familiari non possono inviare libri direttamente ai loro cari in carcere. Gli istituti richiedono che i libri provengano da “fornitori approvati”, spesso servizi specializzati con prezzi maggiorati, oppure da Amazon, che è un po’ più accessibile ma resta comunque fuori portata per molte famiglie già messe a dura prova dai costi legati a un parente detenuto.

E poi ci siamo noi, la terza opzione: una rete di programmi gestiti da volontari che inviano materiali di lettura gratuiti con budget ridottissimi. Books to prisons è una delle decine di organizzazioni negli Stati Uniti e in Canada che, nonostante le regole, colmano questo vuoto assicurando che i libri arrivino a chi altrimenti ne rimarrebbe privo.

E le regole sono complesse. Ho scoperto un universo di direttive che regolano l’ingresso dei volumi in carcere e impararle è stato come seguire un corso universitario in burocrazia carceraria, completo di quiz a sorpresa e cambi di programma a metà se­mestre.

Alcune regole sono relativamente semplici: certi argomenti, come la manomissione di serrature, la manipolazione psicologica o le tecniche di arti marziali, erano vietati nella maggior parte delle strutture, quindi non li tenevamo nemmeno sugli scaffali. Questo era facile.

Ma poi si è aperto un vasto territorio grigio, un paesaggio di negoziazione continua. Evitavamo, per esempio, di tenere libri sul tai chi, temendo che potessero essere associati alle arti marziali, nonostante i movimenti dolci e meditativi della pratica. Perché sprecare tempo prezioso di volontariato e costi postali, quando potevamo semplicemente spedire un libro sullo yoga? I materiali “legati alla malavita” erano vietati, ma allora che fare con Il padrino, uno dei romanzi più celebri sul crimine organizzato?

Guido Scarabottolo

La nudità meritava una categoria a parte nell’ansia da censura. Una volta ci è stato restituito un libro perché conteneva un’immagine di Gesù bambino nudo. I manuali di anatomia erano automaticamente respinti per via delle raffigurazioni dei genitali. Avevamo un elenco speciale che indicava quali numeri del National Geographic contenessero immagini di popolazioni indigene in abiti tradizionali, motivo sufficiente per farli respingere da alcune strutture. Una volta ho passato un lungo momento imbarazzante a studiare una foto nell’autobiografia di Colin Powell: ritraeva lo statista da bambino, sdraiato a pancia in giù, con la curva del sederino messa a fuoco. Mi sono trovata a esaminare quell’immagine del tutto innocente cercando di capire se l’ufficio postale del carcere l’avrebbe considerata inaccettabile.

Più del 90 per cento dei nostri libri arrivava dalle donazioni degli abitanti di Washington, spesso dopo la lettura. Ma anche il più innocuo segno a matita poteva bastare per farli respingere. Capire cosa rientrasse nei margini dell’accettabilità era più un’arte che una scienza: un equilibrio tra la rarità del libro, la severità della struttura carceraria e l’intensità della sottolineatura. Che fare con un urban novel quasi introvabile ma molto richiesto? È un genere di solito scritto da autori neri, con una visione cruda della vita di strada che poteva includere argomenti che le carceri disapprovano, come lo spaccio di droga o la violenza delle armi. Poteva passare in una prigione famosa per le sue interpretazioni rigide delle regole? Era improbabile, ma a seconda della giornata avrei potuto comunque rischiare le spese di spedizione. Dietro ogni rifiuto si nascondeva la stessa paranoia istituzionale: tra pagine innocenti potevano nascondersi messaggi, droghe o semi del malcontento.

Le copertine rigide di solito non passavano: ci dicevano che potevano essere affilate per diventare armi oppure usate come rudimentali armature, oltre a essere più costose da spedire. Alcune strutture, però, facevano eccezione, come i centri californiani che addestravano i detenuti a diventare vigili del fuoco: accettavano qualunque formato. “Signora, a questi ragazzi diamo in mano delle asce”, ha detto a una volontaria un loro addetto alla posta. “Le copertine rigide non sono un problema”.

I danni apparentemente causati dall’acqua erano un’altra grande fonte di preoccupazione: i funzionari temevano che le pagine fossero state immerse in droghe liquide. Non si trattava solo d’impedire l’ingresso di sostanze, ma anche di evitare che il personale della posta fosse esposto al fentanyl. Da quanto risulta in tutti i resoconti attendibili che ho letto, il fentanyl non funziona proprio così. Eppure, alcuni agenti penitenziari sostenevano di esserne stati contaminati semplicemente toccando una lettera.

Regole che cambiavano di continuo e modi diversi di applicarle rendevano ogni pacco un rischio. Quello che un mese andava bene poteva essere rifiutato quello dopo. Una prigione accettava qualcosa, un’altra lo vietava. E questo puzzle di regole rendeva ancora più difficile spedire libri a chi era fuori della nostra zona.

A Washington non ci sono prigioni, quindi chi è condannato può essere mandato in posti sparsi per il paese. Quando ricevevamo richieste da parte di strutture che non servivamo di solito facevamo eccezione per i residenti di Washington. Era un modo concreto per aiutare i nostri ex, e forse futuri, vicini di casa.

Secondo un rapporto, quasi l’85 per cento delle persone detenute negli Stati Uniti prima o poi tornerà libera. E anche per le circa duecentomila che stanno scontando l’ergastolo, leggere può migliorare la salute mentale e il benessere generale. È un beneficio per tutti i detenuti. Eppure, far entrare libri in carcere è sempre più difficile: ho solo accennato alcune delle regole e non vi ho proprio parlato dei requisiti d’imballaggio imposti da alcune strutture.

Questo approccio diretto alla lettura assume un peso ancora maggiore oggi, mentre la seconda amministrazione Trump punta a un’espansione senza precedenti del sistema carcerario. L’amministratore delegato del gigante delle carceri private CoreCivic ha recentemente celebrato quella che prevede sarà “la crescita più significativa nella storia dell’azienda”, che procede di pari passo con restrizioni sempre più rigide su ciò a cui i detenuti possono accedere.

I numeri sono impressionanti: secondo un rapporto del 2023 del Marshall project, un progetto giornalistico che si occupa di prigioni e sistema penale, nelle carceri degli Stati Uniti sono già stati vietati più di cinquantamila libri. E questa cifra, basata su elenchi forniti da appena 19 stati, probabilmente sottostima l’estensione reale della censura. Solo la Florida ne proibisce ventimila, mentre altri stati impongono restrizioni spesso incoerenti e arbitrarie.

Inoltre anche quando i libri sono teoricamente disponibili, molte carceri hanno sostituito quelli cartacei con tavolette digitali, uno sviluppo che comporta altre barriere. Le aziende di telecomunicazioni carcerarie, come la Global tel link (Gtl) e la JPay, fanno pagare ai lettori fino a cinque centesimi al minuto per accedere ai contenuti digitali, compresi i testi di dominio pubblico che sono gratuiti per tutti gli altri. Questa pratica trasforma la lettura da un diritto in una merce, colpendo soprattutto i lettori più lenti, che finiscono per pagare una vera e propria tassa sull’alfabetizzazione. Katy Ryan, fondatrice dell’Appalachian prison book project, un’altra organizzazione di volontari che invia libri gratuiti alle persone detenute in sei stati dei monti Appalachi, ha fatto i conti e ha scoperto che leggere un solo romanzo come 1984 di George Orwell costa circa venti dollari. Intanto, il salario dei detenuti, se ce l’hanno, supera raramente il dollaro al giorno.

Le persone detenute devono conservare i loro diritti costituzionali, compreso quello alla libertà di espressione, garantito dal primo emendamento. La corte suprema lo ha chiarito nel 1989 con la sentenza Thorn­burgh v. Abbott, stabilendo che le carceri devono valutare i libri caso per caso, senza imporre divieti generici. Ma in tutta la nazione, le vaghe preoccupazioni sulla sicurezza finiscono spesso per avere la meglio su questi diritti, con pochissime supervisioni o richiami all’applicazione della legge.

Le lettere alla fine seguivano uno schema abbastanza prevedibile. I libri più richiesti erano i dizionari. Poi c’erano i thriller, più o meno uno ogni due lettere. Richieste di storia afroamericana, storia dei nativi americani, true crime o western spuntavano circa ogni venti lettere: meno frequenti, ma abbastanza costanti da poterle prevedere. Le lettere variavano da elenchi lunghi di titoli specifici a brevi liste di generi scritte su un pezzo di carta.

Tra questi messaggi, le richieste potevano essere di ogni tipo, trasformandomi in una sorta di bibliotecaria investigativa. Un paio di volte all’anno arrivavano quelle di dizionari klingoniani, che a volte venivano respinte perché i funzionari del carcere non volevano che i fan di Star trek potessero comunicare segretamente. Alcune donne transgender ci scrivevano per avere libri sulla femminilizzazione della voce. Una mamma del Kansas ci ha mandato francobolli e una breve lettera per chiedere un libro su come aiutare i bambini con il disturbo da deficit d’attenzione. Ogni tanto arrivavano richieste per quella che chiamavo la “trilogia del potere bianco”: libri sulla storia celtica, norrena e vichinga. Ho cercato di concedere a queste richieste il beneficio del dubbio, vedendo in molte lettere la voglia di ricollegarsi alle proprie radici anche in prigione, e ho inviato manuali di storia, anche se un po’ aridi.

Il mio background in narrativa letteraria a volte mi è stato d’aiuto. Una volta una persona mi ha chiesto opere di Zora Neale Hurston, una delle mie scrittrici preferite. Non avevamo nulla di suo, così ho inviato un libro di Flannery O’Connor, spiegando al lettore che si trattava di un’altra autrice del sud degli Stati Uniti con una voce particolare.

Il nuovo progetto di lettura è partito nel giro di poche settimane. I thriller e i gialli erano il modo più semplice per entrare nel vivo. Ho preso in prestito alcuni libri dai nostri scaffali e ho capito subito il fascino di Lee Child. Poi sono passata a Val McDermid, Walter Mosley, Randy Wayne White e Tana French, apprezzandoli sempre di più.

I western che ricevevamo arrivavano a blocchi, e sospettavamo un po’ malinconicamente che fossero donazioni dopo la morte di qualche nonno. Un libro che spuntava spesso era Un volo di colombe (1985) di Larry McMurtry. Anche se McMurtry aveva vinto il premio Pulitzer e altri riconoscimenti, non avevo mai letto il suo romanzo più famoso. L’ho divorato, riconoscendo qualcosa che molti già sanno: i western sono una metafora dell’identità americana, con tutti i suoi pregi e difetti.

Da allora ho convinto altri a leggere McMurtry e ho cominciato a esplorare il suo ampio catalogo. Ma non mi è bastato. Durante un viaggio nell’aprile 2024 a Waco, in Texas, per l’eclissi solare, ho fatto tappa all’Hotel 1928, dove hanno trovato una nuova casa migliaia di libri provenienti dall’ex libreria di McMurtry ad Archer City.

La mia amica bibliotecaria ha storto il naso davanti a quei volumi impilati. Alcuni avevano ancora ritagli di carta infilati tra le pagine e prezzi scarabocchiati a matita nell’angolo in alto del frontespizio, probabilmente scritti a mano proprio da McMurtry. Intanto, a meno di un’ora di distanza, a Gatesville, in Texas, diverse prigioni popolavano il territorio, strutture a cui negli anni avevo spedito molti pacchi.

Quella vicinanza rendeva il divario impossibile da ignorare. All’Hotel 1928 i libri erano trattati come oggetti decorativi, mentre a poco più di cinquanta chilometri da lì c’erano lettori che li avrebbero amati, se solo ne avessero avuto la possibilità. Io mi sentivo come un ponte vivente, capace di muovermi liberamente tra quei due mondi, una libertà che né i libri né i loro potenziali lettori potevano avere.

Forse nessun genere mi ha cambiato tanto quanto il romanzo rosa. Anche se è il più venduto in assoluto, in carcere non è così popolare: è scritto principalmente da e per donne, mentre per la maggior parte i detenuti negli Stati Uniti sono uomini. Però ricevevo abbastanza richieste da suscitare il mio interesse. Il romanzo rosa presentava sfide particolari: molte carceri vietano contenuti sessuali, ma le copertine moderne, con le loro illustrazioni colorate, non davano molti indizi sul contenuto, a differenza delle copertine più esplicite degli anni novanta.

Questo scollamento ha creato spazio per piccole ribellioni. Mentre libri espliciti come Cinquanta sfumature di grigio (2011) erano subito respinti, titoli altrettanto piccanti con copertine dall’aspetto innocente riuscivano a passare inosservati. La mia ricerca, diventata presto un piacere, mi ha fatto sentire una specie di contrabbandiere letterario che metteva in contatto i lettori con libri di cui conoscevo bene il livello di focosità. Non riuscivo a smettere di leggerli.

La mia lettura di romanzi rosa è cominciata un po’ di nascosto, proprio come le richieste che ricevevamo. I lettori che cercavano storie d’amore, o a volte erotiche, spesso dissimulavano i loro desideri infilando con cura questi titoli in mezzo a liste più lunghe di generi accettabili come saggi e dizionari.

Scoprire che bell hooks leggeva due romanzi rosa al giorno ha fatto crollare ogni mia residua pretesa di superiorità letteraria. Sono libri, come ha osservato nel 1999 la scrittrice e attivista femminista, che raccontano storie in cui nonostante gli ostacoli “i protagonisti trionfano e alla fine tutto va bene”, storie che mettono al centro le relazioni e assicurano un lieto fine: perché non abbracciare qualcosa di gioioso che celebra l’amore in tutte le sue forme?

Questa considerazione mi ha spinto infine a scrivere un mio romanzo d’amore, oltrepassando i limiti di ciò che, da giornalista “seria”, pensavo di poter fare. Scrivendo di nascosto circa trentamila battute alla volta dopo aver finito le mie consegne di saggistica, ho completato il manoscritto in poco più di un anno. Mentre discutevo con un’agente interessata a un mio progetto di saggistica, ho trovato il coraggio di chiederle se avrebbe considerato di rappresentare anche il mio romanzo.

Ha accettato dopo aver letto la prima parte del manoscritto: un’approvazione che ho vissuto come una conferma della mia nuova, più ampia identità letteraria. I muri tra scrittura seria e popolare erano caduti, non solo nella mia vita di lettrice, ma anche in quella di autrice.

Quello che i nostri lettori in carcere dimostrano è che la vera libertà di scegliere cosa leggere non è nel cercare libri migliori, ma nel diritto fondamentale di leggere liberamente per il piacere invece che per il prestigio, seguendo ciò che parla alla nostra umanità personale invece di ciò che risponde alle aspettative istituzionali.

Questa verità è apparsa ancora più chiara quando i funzionari delle carceri ci hanno suggerito di mandare i libri alla biblioteca della struttura anziché direttamente ai detenuti. Ma ogni lettore sa che ci sono libri che non si prestano: quelli che ci parlano davvero, che diventano una parte di noi. Per quanto importanti, le biblioteche carcerarie non possono sostituire il legame profondo che nasce tra una persona e un libro scelto liberamente e tenuto stretto. Facilitare questo legame è la missione che continua a guidarci, nonostante tutte le difficoltà.

L’anno scorso Books to prisons ha risposto a più di settemila lettere. Io ho letto 203 libri, forse per metà romanzi rosa, oltre a un McMurtry e almeno tre thriller. Anche se mi sono trasferita a Los Angeles, resto in contatto con l’associazione: porto libri ogni volta che torno a Washington e sono ancora iscritta alla loro mailing list nazionale, dove leggo, con crescente preoccupazione, le segnalazioni dei volontari su un numero sempre maggiore di strutture che impongono restrizioni più severe sui contenuti o bloccano del tutto l’accesso ai libri. Queste nuove barriere, emerse nei primi mesi della seconda amministrazione Trump, riecheggiano quel modello di espansione del controllo che la linea politica del presidente ha sempre promosso, anche attraverso l’allargamento del sistema carcerario.

Tuttavia, nonostante queste difficoltà, altri volontari si sono fatti avanti. Le lettere continuano ad arrivare nel seminterrato della chiesa, ognuna a dimostrare quanto sia forte il desiderio di leggere. Ci ricordano che la lettura, in fondo, non riguarda il capitale culturale né il controllo carcerario, ma è legata a un diritto umano essenziale: quello d’immaginare in modo diverso, di scegliere liberamente, di trovare la gioia a modo nostro, anche nel perimetro della reclusione. Inviando libri oltre queste barriere, io e le lettere che riceviamo abbiamo superato le nostre. Il libro giusto trova sempre il suo lettore, alla fine. Alcuni hanno solo bisogno di un po’ più d’aiuto per arrivarci. ◆ svb

Jackie Snow è una giornalista freelance statunitense. Questo articolo è uscito sulla Los Angeles Review of Books con il titolo “Reading behind bars, and beyond barriers”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati