Qualcosa deve cambiare nella dieta dei paesi occidentali, per ragioni sia ecologiche sia etiche. Fortunatamente ci sono alternative al sistema attuale, alimenti che sono nutrienti quanto la carne da allevamento intensivo (se non di più) ma non hanno lo stesso impatto negativo sugli animali e sul clima. Purtroppo molti sono convinti che queste alternative siano disgustose.

Parlo per esperienza personale, anch’io lo pensavo. Il mio interesse per il disgusto è nato vent’anni fa, dopo la laurea, quando nelle mie ricerche mi sono imbattuta in un articolo che descriveva i tentativi di produrre carne in laboratorio. La “carne in vitro”, oggi chiamata “carne coltivata” o “carne a base cellulare”, è il risultato della coltivazione di fibre muscolari all’interno di bioreattori usando un terreno di coltura e supporti appositi. Il tessuto muscolare ottenuto in questo modo può essere successivamente compattato per fare hamburger e perfino bistecche.

A molti questo processo può sembrare innaturale e repellente. Ma davvero è una ragione sufficiente per rifiutare un’alternativa più umana e sostenibile?

Nel testo L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, del 1872, Charles Darwin raccontava di aver mostrato il suo pranzo a base di carne in scatola a un indigeno della Terra del Fuoco. L’uomo, toccando la carne spalmabile con la punta del dito, era rimasto disgustato dalla sua consistenza morbida. Darwin invece era inorridito dal fatto che la sua carne venisse toccata da “un selvaggio nudo, anche se le sue mani non sembravano sporche”.

A un lettore di oggi questo passaggio darà sensazioni ambivalenti. Certo, ci fa schifo pensare che un estraneo possa toccare il nostro cibo. Ma è anche vero che la risposta di Darwin in quella circostanza è palesemente razzista, visto che la repulsione è causata dall’identità e dalla cultura dell’indigeno più che da una reale minaccia per la propria salute. Il fatto che la possibilità di una contaminazione invisibile spinga gli esseri umani a rifiutare un pasto appetitoso mostra quanto sia forte il potere del disgusto.

La ripugnanza può essere dovuta anche alle nostre idee sull’identità e l’estraneità, quindi c’è innegabilmente un problema con il disgusto, in particolare come fattore che determina la nostra alimentazione. A volte il disgusto ci protegge, altre volte ci inganna. E arriviamo alla domanda fondamentale: in quali circostanze faremmo meglio a seguirlo?

La lista delle cose che ci disgustano è lunghissima ma, se ci limitiamo a quelle universalmente accettate come repellenti, si riduce ai fluidi corporei (feci e urine, pus, vomito, saliva e muco) e ai visceri esposti. Se non vi è chiaro quale sia il rapporto con gli alimenti, il punto è proprio questo. Il disgusto nasce da un problema fondamentale: per sopravvivere abbiamo bisogno di mangiare, ma mangiare può ucciderci. Il cibo, infatti, è potenzialmente contaminato da patogeni e veleni invisibili, quindi non basta evitare di ingerire feci e vomito, ma è meglio evitare qualsiasi cosa che entri in contatto con le feci.

Cupcake a base d’insetti in mostra all’università di Wageningen, nei Paesi Bassi, aprile 2012 (michaek kooren, reuters/contrasto)

Il gusto risolve parte del problema perché la nostra avversione per ciò che è amaro e la nostra attrazione per il dolce ci aiuta (anche se non sempre) a evitare le tossine, che tendono a essere amare. Ma la fuga dai veleni rappresenta solo metà della battaglia. I patogeni e i parassiti possono annidarsi, impercettibili, in quasi tutte le cose che mangiamo. Ecco perché abbiamo bisogno del disgusto.

Parliamo di una sensazione estrema che va oltre il gusto personale. Quando qualcosa non ci piace, possiamo semplicemente scartarlo. Un cibo dal sapore disgustoso, invece, contamina tutto ciò che tocca, rendendolo immangiabile.

Fisicamente questa reazione si esprime attraverso la caratteristica “espressione di disgusto” – naso arricciato e labbro superiore sollevato – e la risposta è accompagnata da un allontanamento istintivo dall’oggetto disgustoso, e in casi estremi dalla nausea, da un aumento della salivazione e perfino da conati di vomito. Ma il disgusto si esprime anche in modi diversi, e questo è parte del problema.

Sul piano psicologico crea l’impressione di una contaminazione e un corrispondente desiderio di pulizia e purificazione. Oltre a impedirci di ingerire direttamente vomito e feci, questo istinto ci protegge dagli alimenti che sospettiamo possano esserci entrati in contatto.

Ci riesce perché opera secondo due princìpi della “magia simpatetica”: il contagio (il disgusto può diffondersi da un oggetto all’altro anche attraverso un breve contatto) e la similarità (una somiglianza superficiale indica una corrispondenza più profonda). Per esempio un biscotto su cui ha camminato uno scarafaggio si trasforma immediatamente da delizioso a immangiabile, anche se lo scarafaggio si è allontanato da tempo. La somiglianza, invece, fa sì che un pezzo di delizioso cioccolato a forma di cacca di cane risulti repellente anche se sappiamo, razionalmente, che la similitudine si ferma lì. Queste associazioni sono molto potenti. In alcuni esperimenti i volontari si rifiutavano di bere un bicchiere di succo di frutta in cui era stato immerso momentaneamente uno scarafaggio, anche quando gli era stato garantito che l’insetto era stato sterilizzato.

Gli insetti sono un’ottima fonte di proteine, ferro e micronutrienti, mentre hanno livelli molto bassi di grassi saturi

Familiarità e sicurezza

Da un punto di vista evolutivo è sensato che il disgusto operi in modo conservativo e iperprotettivo, dato che il prezzo di un errore può essere altissimo. Ma quando gli errori per eccesso di prudenza riguardano le persone e i loro comportamenti, possono avere conseguenze pesanti . Nel 1980 i malati di aids erano visti con ribrezzo e trattati come se fossero contagiosi. Fece scalpore quando Diana, principessa di Galles, decise di stringere la mano a un uomo sieropositivo senza indossare i guanti e di abbracciare un bambino di sette anni contagiato dal virus dell’hiv.

Quando è diretto verso le persone, il disgusto può provocare più danni che effetti positivi. Alcune ricerche hanno dimostrato che, quando è molto forte, il fanatismo estremo si collega al disgusto più che qualsiasi altra emozione. I nazisti usavano parole associate all’idea di contaminazione e di purezza riferendosi agli ebrei, che descrivevano come scarafaggi o ratti. La repulsione innesca l’intolleranza, che a sua volta trova espressione nel linguaggio del disgusto.

Questo aspetto ha spinto alcuni filosofi – gli “scettici del disgusto” – a sostenere che la repulsione non dovrebbe influenzare i giudizi morali. L’abuso della retorica del disgusto per alimentare il razzismo, il sessismo e l’omofobia dimostra che è una guida inaffidabile e uno strumento pericoloso, che rischia di stigmatizzare e disumanizzare.

Ma allora perché il disgusto nei confronti degli alimenti non è stato ridimensionato allo stesso modo? Uno dei motivi è che le preferenze alimentari sembrano una questione personale difficile da scardinare. Come dicevano i latini, “de gustibus non disputandum est”, il gusto non si discute. Percepiamo il gusto come una parte della nostra identità. D’altronde sarebbe noioso un mondo in cui a tutti piacciono le stesse cose, e le comunità si costruiscono anche intorno al bisogno di trovare qualcuno che condivida gli stessi gusti e di discutere con chi ne ha altri.

Il gusto non è esclusivamente personale. Quello che ci piace deriva anche dalla cultura. Per esempio, gli statunitensi e gli europei tendono ad associare il viscido a qualcosa andato a male, quindi provano repulsione per gli alimenti con quella consistenza. Al contrario in Giappone il termine neba-neba si riferisce ai cibi viscosi e appiccicosi come il natto (fagioli di soia fermentati), ricchi di fibre insolubili e (apparentemente) molto salutari.

Oggi gli appassionati di cucina vanno alla ricerca di ristoranti remoti e sconosciuti, cercando esperienze culinarie impegnative

C’è una spiegazione evolutiva per questa divergenza: la familiarità indica sicurezza. In un’epoca in cui qualsiasi nuovo alimento poteva essere pericoloso, era meglio evitare odori, consistenze e sapori non familiari. Tuttavia, se il disgusto è semplicemente una reazione alla novità, non può assolutamente essere considerato uno strumento affidabile all’interno del sistema alimentare attuale, perché può impedirci di accettare cibi sicuri e nutrienti come la carne coltivata o gli insetti.

Il disgusto è una reazione istintiva, ma dipende anche molto dalle nostre convinzioni. Torniamo allo scarafaggio sterilizzato: anche quando siamo certi che un alimento sia pulito e sicuro, può comunque provocare in noi una forte reazione di repulsione. Succede non perché gli scarafaggi abbiano una natura intrinsecamente disgustosa, ma perché il disgusto è condizionato culturalmente e la nostra cultura ci spinge a pensare agli insetti come a qualcosa che non dovrebbe essere mangiato. Detto questo, l’idea che gli insetti siano schifosi per natura è tutt’altro che universale. Ma se siamo consapevoli che il disgusto è una reazione eccessivamente prudente e dipende dai pregiudizi culturali più che dal rischio reale di contaminazione, non sarebbe il caso di riconsiderare lo scarafaggio?

Formica gustosa

Per me è difficile rispondere a questa domanda, perché sono cresciuta a New York. Penso che gli scarafaggi siano così rivoltanti che, anche mentre scrivo, sono tentata di sostituire “scarafaggio” con “grillo”, un insetto che mi sembra più amichevole. Non sono l’unica. I sostenitori dell’entomofagia, cioè il regime dietetico che prevede di mangiare insetti, spesso si riferiscono ai grilli come “insetti di accesso”, perché hanno un aspetto innocuo, non mordono né pungono, sono presenti nei nostri cortili e suscitano reazioni positive. Diversamente dagli scarafaggi, non si nascondono negli angoli bui o nelle fessure dei muri. Inoltre sono croccanti, non viscidi. E così, quando ho avuto l’occasione di mettere in pratica la teoria e mangiare un insetto, i grilli mi sono sembrati un buon punto di partenza.

Il mio primo snack di grillo è stato poco traumatico. Croccante e un po’ appuntito, aveva soprattutto il sapore delle spezie di cui era ricoperto, insieme a un gusto leggermente affumicato. Ma comunque, mi ha dato l’impressione d’ingerire un insetto (qualsiasi sia la natura di questa ipotetica “impressione”).

Dai grilli alle formiche, il passo è breve. Le formiche hanno un sapore più caratteristico, perché l’acido formico conferisce alla loro carne un retrogusto agrumato. Con mia grande sorpresa, questa caratteristica si sposa bene con il guacamole. Visivamente le formiche nere creano un forte e piacevole contrasto con il verde brillante dell’avocado.

Ho avuto la fortuna di scoprire le formiche (e le cavallette) grazie allo chef Mario Hernández, che fino a qualche tempo fa gestiva il ristorante Black Ant a New York, dove le due specie erano proposte nei piatti della cucina messicana. Durante un evento incentrato sugli insetti commestibili, lo chef ha descritto le tecniche di raccolta convenzionali, compresa quella che prevede l’uso di reti per percuotere le spighe e catturare le cavallette nei campi di erba medica.

Pollo frullato

Joseph Yoon, che si definisce “ambasciatore degli insetti commestibili”, ha deciso che la sua missione nella vita è convincere le persone a mangiare gli insetti, non perché sono sostenibili ma perché sono, a suo parere, deliziosi. Aristotele, d’altronde, tesseva le lodi del gusto dolce della cicala femmina, da consumare preferibilmente quando è piena di uova fecondate. Personalmente mi è sempre sembrato un po’ troppo: a differenza da un grillo croccante, infatti, quando immaginavo di masticare una cicala ero certa che avrebbe avuto una consistenza viscosa. È una sensazione che non mi ha mai abbandonato del tutto, ma quando ho partecipato a una degustazione organizzata da Yoon e ho saputo che il menù comprendeva le cicale, ho deciso che era arrivato il momento di prendere il coraggio a due mani. Con grande stupore, ho scoperto che la tempura di cicala ha lo stesso sapore di quella di gambero.

Il gusto non è l’unica ragione per mangiare gli insetti, e quasi mai è la prima della lista. Questi animali sono un’ottima fonte di proteine, ferro e micronutrienti, mentre hanno bassi livelli di grassi saturi. Inoltre sono meno vulnerabili alle epidemie e hanno una minore probabilità di trasmettere malattie agli esseri umani.

L’allevamento degli insetti è altamente sostenibile, soprattutto se paragonato a quello di altre fonti di proteine: oltre a richiedere poca acqua e poco spazio, produce pochi rifiuti e poche emissioni. Infine gli insetti hanno un alto “indice di trasformazione dell’alimento”: per produrre un chilo di carne servono circa dieci chili di mangime, mentre per produrre un chilo di grilli ne bastano 1,7 chili. In questi casi il disgusto non sembra un istinto utile. Qualcuno potrebbe ribattere che siamo solo nauseati dalle cose sbagliate, e che il disgusto in sé non è controproducente. Forse la soluzione è indirizzarlo verso altri cibi che, per varie ragioni, faremmo meglio a non consumare.

Allora il disgusto potrebbe diventare il motore di un cambiamento positivo? A volte indagare sui processi di produzione di ciò che mangiamo può innescarlo. Per esempio, informarsi sulle condizioni degli allevamenti e delle fabbriche per il confezionamento della carne significa prendere atto della possibilità che una bistecca possa contenere batteri.

Nel 2009 il New York Times pubblicò un’inchiesta sulla carne macinata trattata con l’ammoniaca e servita nelle mense scolastiche statunitensi. Quando su internet si diffusero le foto che mostravano una “melma rosa” (un impasto creato con carne meccanicamente separata e trattata con l’ammoniaca per produrre hamburger, würstel e crocchette di pollo), molti lettori si dissero disgustati. Certo è ingenuo pensare che le crocchette di pollo vengano prodotte con qualcosa di diverso da un “frullato di carne”, ma resta il fatto che i timori relativi alla contaminazione non sono infondati.

A volte il cibo che abbiamo davanti cozza con un profondo impegno morale o un principio fondamentale. Parlando del motivo per cui mangiamo alcuni animali ma non altri, la filosofa Cora Diamond sottolinea che questi confini fanno parte di ciò che costituisce il nostro rapporto con categorie come “animale domestico” e “animale infestante”. Per farla breve, le persone che mangiano i loro animali domestici non hanno davvero animali domestici, perché gli animali domestici non si mangiano. Allo stesso modo, possiamo essere disgustati dal foie gras per come viene prodotto, cioè alimentando forzatamente le anatre attraverso un tubo inserito nella gola fino a quando il loro fegato raggiunge dimensioni sei volte superiori a quelle normali. Quando la nostra prospettiva etica su un alimento cambia, il disgusto può fare parte di questo processo. Le persone che hanno deciso di seguire una dieta vegetariana raccontano che a un certo punto hanno trovato la carne repellente, un aspetto che è diventato più influente rispetto alle motivazioni legate alla salute.

Sperimentatori gastronomici

Visto che il mangiare è un fatto personale e culturalmente significativo, troppo spesso il disgusto è influenzato dai pregiudizi e non dalla scienza. Basta pensare agli insetti. Oggi gli statunitensi entrano in contatto con l’entomofagia soprattutto in descrizioni di futuri distopici o in contesti in cui mangiare un insetto costituisce una sfida. Questa realtà rafforza la percezione che gli insetti siano qualcosa da temere, o comunque una cosa da mangiare quando non ci sono alternative. Inoltre implica che nessuno mangerebbe volontariamente un insetto. Ma la verità è che molti abitanti del pianeta lo fanno, e spesso subiscono gli effetti del disgusto espresso dagli altri.

Criticare e disumanizzare gruppi religiosi o etnici paragonandoli agli animali rappresenta evidentemente un problema. Ma denigrare un gruppo a causa degli animali che sceglie di mangiare è un problema particolare. Definire disgustoso un alimento crea un pregiudizio che si trasferisce alle persone che lo consumano. Secondo la legge del contagio, mangiare cibi disgustosi significa essere disgustosi. La repulsione verso la cucina di una cultura è una forma di xenofobia. Se è vero che “siamo ciò che mangiamo”, cosa siamo se mangiamo cose disgustose? Il disgusto a volte non è un motivo valido per evitare alcuni alimenti, soprattutto quando il loro consumo può portarci enormi benefici. C’è da chiedersi quindi se possiamo superarlo. In casi estremi, come la prospettiva di mangiare vomito o feci, è impossibile ed è giusto che sia così. Ma nei casi in cui il disgusto ci impedisce di ingerire sostanze commestibili, ci sono alcuni accorgimenti che possiamo adottare per superarlo.

Uno è l’esposizione, non solo entrando in contatto con l’alimento in questione ma anche osservando le persone che lo mangiano. Un’altra soluzione è trovare somiglianze tra qualcosa che ci sembra immangiabile e altri alimenti che siamo abituati a consumare, per esempio tra insetti e crostacei. Quando videro per la prima volta un gambero, i nativi goshute (la cui dieta tradizionale comprendeva grilli, locuste e cavallette) lo chiamarono “grillo di mare”. Di recente, qualcuno ha provato a chiamare le locuste “gamberi del cielo”.

I crostacei sono un paragone utile anche in altri contesti. Le aragoste, per esempio, sono state considerate a lungo un “cibo spazzatura” che solo i detenuti e i poveri osavano mangiare. Quando il formaggio fu introdotto per la prima volta in Europa occidentale molti lo accolsero con sospetto e in alcuni casi con repulsione. In Le officine dei sensi (1985), lo storico italiano Piero Camporesi scrive che il formaggio cagliato era visto come la parte escrementizia del latte. Preparato soprattutto dalle donne contadine, si pensava che fosse potenzialmente contaminato e capace di provocare la putrefazione dell’intestino. A questo presunto sudiciume fisico corrispondeva una corruzione culturale: “Il confine tra la civiltà e il barbarismo era innegabilmente costituito dalla linea bianca del latte, fermentato o cagliato”, osserva Camporesi.

L’esempio del formaggio mostra che il significato che diamo agli alimenti può mutare nel tempo. Invece di collegare l’entomofagia (o il formaggio) con qualcosa di sporco o distopico, forse dovremmo considerarla una novità, una scelta sostenibile o un passo verso la comprensione della cucina indigena. O magari dovremmo ripensarci come sperimentatori gastronomici.

Forse la soluzione più radicale è trovare gioia nelle nostre reazioni negative al cibo. Se molti di noi provano piacere guardando un film horror o salendo sulle montagne russe, è evidente che c’è una sorta di piacere paradossale nelle esperienze esteticamente negative come la paura, il malessere e il disgusto. Mangiare, dopo tutto, è anche una forma di intrattenimento. Oggi gli appassionati vanno alla ricerca di ristoranti remoti e sconosciuti, cercando esperienze culinarie faticose. Ma anche in passato i banchetti avevano lo scopo di sorprendere, emozionare e perfino spaventare gli ospiti. L’inquietudine può spingerci oltre le nostre abitudini, mentre adottare la prospettiva di uno sperimentatore gastronomico può aiutarci ad accettare alcuni alimenti, definendoli non più “disgustosi” ma “impegnativi” o “avventurosi”. Chiunque abbia provato il brivido di ingoiare la prima ostrica cruda sa bene cosa significa superare una paura alimentare.

Più di dieci anni dopo aver letto il primo articolo sulla “carne coltivata”, mi sono ritrovata in un appartamento di Manhattan a vivere un’esperienza elettrizzante che riguardava la cosa da mangiare meno elettrizzante che si possa immaginare: il pollo. Ero in piedi davanti ai fornelli e osservavo una confezione di pollo sminuzzato. Un prodotto assolutamente comune, se non fosse che era fatto con cellule coltivate in un bioreattore. Quello che avevo davanti era pollo senza pollo, insomma. Mentre la carne cuoceva, l’ho sentita sfrigolare e l’ho vista indorarsi.

Potrebbe essere il futuro del cibo: una nuova tecnologia che riproduce gli alimenti che ci sono più familiari. Oppure potrebbe essere un ritorno ai cibi che consumavamo millenni fa. In ogni caso, comunque vada, non sarà disgustoso. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati