24 luglio 2017 15:52

“Papà, si è calmato il mare?”, chiede la figlia maggiore di Rocco Aiello, uno dei soccorritori della nave Aquarius, con un messaggio vocale mandato dal telefono.

“Il mare si sta calmando”, risponde il papà mentre il sole scompare all’orizzonte. Qualche ora dopo, alle otto di mattina del 23 luglio, il secondo ufficiale dell’Aquarius viene svegliato da una chiamata della centrale operativa della guardia costiera italiana. “C’è una barca in difficoltà 60 miglia nautiche a nordest”, dicono al telefono da Roma. Dopo giorni di pattugliamento di fronte alle coste occidentali della Libia, fuori dalle acque territoriali, l’Aquarius si mette in viaggio per raggiungere il gommone con circa 120 persone a bordo.

A una velocità di crociera di dieci nodi, in quattro ore la nave raggiunge il suo obiettivo, ma l’imbarcazione in difficoltà è già stata soccorsa intorno alle 11 dalla nave Diciotti della guardia costiera italiana. Alle 14 comincia il trasbordo di 118 persone, tra cui 22 donne e una bambina di appena quattro mesi, Emmanuela. I migranti erano partiti la sera precedente, alle 23, da una spiaggia a est di Tripoli, di solito poco usata dai trafficanti.

Come una piazza
Le scialuppe fanno la spola tra le due navi che si sono fermate a distanza di pochi metri l’una dall’altra. Il medico e gli infermieri dell’Aquarius partono sul primo gommone per raggiungere la nave della guardia costiera e ricevere le consegne sui casi medici a bordo. A parte una donna con il braccio rotto, non vengono segnalati problemi particolari.

I migranti aspettano in fila sulla prua della nave Diciotti: hanno un braccialetto arancione con un numero al polso e il giubbotto di salvataggio addosso. Tra le donne le nigeriane sono la maggioranza, mentre tra gli uomini i più numerosi sono i bangladesi.

A gruppi di quindici sono trasferiti sulla nave Aquarius, dove trovano un’efficiente macchina dell’accoglienza ad aspettarli. “Benvenuti a bordo, welcome, bienvenue”, dice Marcella Kraay, la coordinatrice di Medici senza frontiere, a tutti quelli che entrano sul ponte della barca, mentre gli stringe la mano e li aiuta a slacciarsi il giubbotto di salvataggio.

A tutti viene distribuito un sacchetto con una coperta, dei vestiti puliti, una barretta energetica e una bottiglia d’acqua. Poi comincia lo screening medico: gli infermieri Tim Harrison e Steffen Burk annusano i naufraghi per sentire se hanno addosso tracce di benzina o gasolio, che spesso fuoriesce dai motori dei gommoni. Due persone puzzano di combustibile. Devono subito togliersi i vestiti e farsi la doccia.

La guardia costiera italiana continua a chiedere alle ong attive nel Mediterraneo di soccorrere i migranti

Evelyn è una donna nigeriana slanciata, capelli corti, viso allungato. Ha il braccio fasciato per una vecchia frattura che non è stata curata. Appena arriva a bordo si siede su una panca di legno sul ponte. Sembra persa. “Come stai?”, le chiedono. Scoppia a piangere. Non trova suo marito. L’ultima volta che lo ha visto era sulla spiaggia la sera prima. Poi sono stati separati. Ha sperato di ritrovarlo sul gommone, quindi sulla nave, ma niente. In una camicia accartocciata che usa come borsa ha nascosto il passaporto del suo compagno. Lo mostra ai volontari. “Proviamo a chiedere se qualcuno lo ha visto”, assicura il dottor Craig Spencer, ma la donna continua a piangere silenziosamente e si asciuga le lacrime con un lembo della camicia.

L’importanza dei trasbordi
Dopo due ore la nave si è trasformata in una piazza: la poppa è affollata di persone che cercano di riposare stese a terra, mentre sul ponte tutti si muovono in maniera caotica. C’è chi vuole parlare con il dottore perché ha mal di testa o si sente la febbre, chi cerca un parente o un amico, chi aspetta il suo turno per fare la doccia, chi non riesce nemmeno a parlare dalla stanchezza. Mentre la nave si rimette in viaggio verso ovest, la centrale operativa della guardia costiera italiana chiama di nuovo il capitano dell’Aquarius: c’è un altro trasbordo da fare dalla nave Golfo Azzurro dell’ong Proactiva Open Arms che ha condotto almeno tre operazioni di soccorso e ha recuperato più di trecento persone.

Il governo italiano ha appena pubblicato un codice di condotta che vieta alle ong di fare trasbordi in mare dopo i soccorsi, ma la guardia costiera italiana continua a chiedere alle organizzazioni umanitarie attive nel Mediterraneo di prestare questo tipo di servizio. “Abbiamo fatto un trasbordo dalla nave Diciotti della guardia costiera su richiesta delle autorità italiane e questo ha permesso alla nave di rimanere nella zona per un periodo più lungo di tempo”, spiega Marcella Kraay di Medici senza frontiere.

“Vuol dire che se arriveranno altre persone troveranno una nave pronta a soccorrerle e la loro probabilità di morire in mare si ridurrà. Il coordinamento tra le navi e il trasbordo dei migranti è tanto più importante date le condizioni atmosferiche, infatti ci sarà ancora una breve finestra di bel tempo nei prossimi due giorni. Questo ci fa pensare che molte imbarcazioni proveranno a partire dalla Libia in questo momento”, conclude Kraay.

Alle 19 comincia il secondo trasbordo: il mare è una tavola, non soffia un filo di vento, il sole sta tramontando, si alza un’umidità appiccicosa. Alcuni delfini si avvicinano alle navi e saltano sulla superficie dell’acqua creando dei cerchi concentrici. “Quando il mare è così piatto a noi bangladesi sembra uno dei nostri fiumi”, spiega Mohammad Taher, il mediatore culturale bangladese di Medici senza frontiere.

A gruppi di venti su tre scialuppe i migranti vengono spostati dalla nave spagnola all’Aquarius. Tra i soccorsi ci sono una decina di bambini e una sessantina di donne. Dieci di loro sono incinte. “Che Dio vi benedica”, dice una donna della Guinea, mentre un volontario prende in braccio il figlio di sette anni, lo solleva dal gommone e lo porta a bordo dell’Aquarius.

Questo articolo fa parte di un diario che racconta la vita a bordo dell’Aquarius, una delle navi impegnate nel soccorso dei migranti nel Mediterraneo centrale.

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